Non parlatemi. Sto partorendo.

di Debora T. Stenta

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Non parlatemi.

Sto partorendo. 

Non rivolgetemi parole. Anche quelle di incoraggiamento, anche quelle di sostegno.

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Non parlatemi.

Non datemi misure, tempi, modi.

Non accendete il mio grande elaboratore neocorticale.

Io ora voglio solo stare nel sogno che ho sognato fin dall’inizio di questa vita nuova.

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Sto partorendo.

Lasciatemi la magia.

L’ignoto.

Il mistero.

La paura.

Lasciatemi l’estasi.

La gioia.

Lo splendore.

Lasciatemi col mio corpo che si schiude alla vita. Che fiorisce la sua gemma.

Lasciatemi al mio potere, alla mia forza sovrumana.

Lasciatemi alla mia iniziazione. 

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Non parlatemi.

Non guardatemi.

Non distraetemi da questo miracolo.

Sto partorendo.

Concedetevi il dono del non fare.

Concedetevi di essere semplici testimoni della manifestazione spontanea della vita. In silenzio, in contemplazione. 

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Non aiutatemi.

Non incoraggiatemi.

Non fate cose che posso fare da sola, o di cui posso fare a meno.

Non riprendetemi col cellulare, con la videocamera, con la macchina fotografica.

Sto facendo l’amore con la vita e voglio che questo momento sia solo nostro. 

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Non fate ciò che non chiedo; e anche quando lo chiedo, lasciate che io lo chieda, senza per forza adoperarvi per rispondere.

A volte ho solo bisogno di lasciare uscire delle emozioni. 

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Non interferite con il nostro viaggio.

Io e questa creatura abbiamo bisogno di accordarci per suonare la nostra sinfonia.

Siate custodi.

Guardiani della soglia. 

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Non ho bisogno di sentirmi dire che sono brava e che manca poco.

Ho bisogno di stare sul mio pianeta fuori da qui e lasciarmi attraversare da questa marea.

Ho bisogno di aprirmi a metà per poi rinascere integra con la mia creatura.

Non sarete voi a farlo. Solo io e lei possiamo farlo.

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Non offendetevi se vi dico di lasciarci sole.

È la mia parte mammifera che sa che per partorire ho bisogno di sentirmi al sicuro, protetta, non osservata.

Ho bisogno di luce soffusa, silenzio, lentezza, solitudine.

Ho bisogno di sentirmi libera di lasciare uscire tutto senza farmi riguardo.

Almeno oggi.

Almeno quando sto dando alla luce. 

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Poi, se sarà necessario, tornerò ad accondiscendere alle convenzioni, a farmi riguardo, a conformarmi alle buone norme.

Forse.

Ma ora no.

Ora sto partorendo.

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Art by thrifty hippie

Miracoli ordinari

di Debora T. Stenta

dal blog https://bradosisma.wordpress.com/2022/10/18/miracoli-ordinari/

Godo di un grande privilegio.

È quello di poter essere testimone della forma e del ritmo che ha la vita negli istanti in cui si manifesta in una creatura che esce dal corpo di sua madre. Di essere testimone di cosa diventa una madre in quegli istanti, del suo essere servizio assoluto, del suo essere pura e totale presenza. 

Godo del privilegio immenso di poter stare silenziosamente accanto nella pace del momento in cui compare quella diade che contiene, come la gemma di un albero, tutte le informazioni e le funzioni necessarie alla vita stessa.

Il ritmo della vita, quando si esprime in una creatura appena nata e nei gesti di sua madre, è lo stesso ritmo che ha lo sbocciare di un fiore. 

Le prime ore, i primi giorni di vita di una creatura sono fatti di piccole, semplici, ordinarie azioni miracolose: la madre pulisce delicatamente con una tela umida una pieghetta arrossata del collo dove c’è un po’ di casex nascosto; la creatura fa un balzo mentre dorme tra le braccia della madre e la sua mano si alza improvvisamente nell’aria, per poi abbassarsi lentamente e tornare a posarsi lievemente sulla pelle della madre; la madre tocca un piedino che appare al tatto un po’ troppo fresco e lo riscalda avvicinandolo ancora di più al proprio corpo; le labbra della creatura tremolano nel sonno ricordando il capezzolo che circondavano pochi istanti prima; la madre toglie qualche crosticina dagli occhi della creatura.

Non c’è molto altro da fare.

Non ci sono pensieri altri, grandi voli pindarici, grandi riflessioni trascendentali. 

L’essenziale è tutto lì, in quel miracolo ordinario che è racchiuso nei gesti dell’inizio della vita. È la straordinaria normalità del nascere e del morire, momenti tra i pochi in cui possiamo veramente sintonizzarci con il ritmo dello sbocciare di un fiore. Che sboccia, non c’è dubbio, anche se noi a occhio nudo non riusciamo a cogliere il movimento dei petali che si aprono.

A occhio nudo contemplo quei gesti, bagno assetata nell’oceano di quei gesti, mi ci perdo e non esiste altro. Ogni complicazione della mia vita mi sembra vana quando ricevo il dono di essere accanto a questo miracolo ordinario. Ugualmente vano mi pare ogni sforzo che l’umano fa per opporsi alla propria entelechia, alla perfezione delle proprie istruzioni originarie.

Con l’occhio nudo anche il cuore e la mente si denudano, ad ogni respiro che gonfia e sgonfia il pancino della creatura, ad ogni suo stiracchiarsi, nella mano materna che allarga la scollatura della maglia per offrire il seno alla creatura, nella macchia di latte che si allarga in corrispondenza del capezzolo che non è in uso, nel sorriso enigmatico della madre che esprime il suo stato non ordinario di coscienza totalmente ancorato al piacere.

Da quella diade si sprigiona un senso di presente eterno. Non c’è passato, non c’è futuro, pochi pensieri occupano la mente: cambiare il pannetto bagnato di pipì, spostare dolcemente la creatura sul seno che è più carico di latte, lasciarsi stringere il dito dalla minuscola mano.

Benedico chi mi ha scelta e continua a scegliermi per custodire questo tempo. 

Benedico di essermi offerta alla chiamata di essere al servizio della nascita.

Benedico di avere queste periodiche occasioni per ricordarmi dell’essenziale.

Riunione

Charles Eisenstein (tradotto da Debora T. Stenta)

7 febbraio 22

L’altro giorno ho letto la storia di una coppia in Germania. Avevano goduto di un matrimonio armonioso per più di 20 anni fino a quando è arrivato il Covid: in quel momento hanno sposato delle credenze totalmente opposte l’uno all’altra. I loro litigi sono diventati sempre più violenti, finché l’anno scorso si sono separati.

Prima di caratterizzare brevemente i loro punti di vista chiedo al lettore di fare un bel respiro, prepararsi a notare da quale parte sente istintivamente di schierarsi e come spera che la storia finisca.

Il marito rifiutava la narrazione tradizionale sul Covid. Era arrivato a credere che l’intera faccenda fosse una progetto avviato deliberatamente per imporre un controllo totalitario globale. Era arrivato a credere che le cifre dei decessi fossero esagerate, che le mascherine non portassero alcun beneficio e che i vaccini non fossero né efficaci né sicuri.

La moglie aveva un punto di vista tradizionale. Credeva che fosse non solo prudente attenersi rigorosamente a tutte le misure di salute pubblica per la propria protezione, ma anche che farlo fosse moralmente imperativo per proteggere gli altri. Aveva fiducia nell’integrità delle istituzioni scientifiche, delle agenzie di salute pubblica e dei media. Credeva che i vaccini fossero un trionfo della scienza. Andò quindi a vaccinarsi ed era profondamente turbata dal rifiuto di suo marito di farlo, temendo che la contagiasse, ed era arrabbiata perché metteva gli altri a rischio. Fu quindi lei ad avviare il divorzio.

Oggi la coppia è tornata insieme.

Non vi piacerebbe leggere che uno dei due (quello con cui non siete d’accordo) ha visto il proprio errore ed è finalmente arrivato alla verità? Il mio uso del tempo passato nel raccontare la storia (“lei credeva”, “lui credeva”) suggerisce che questo è ciò che è successo. E non sarebbe meraviglioso se, su una scala più ampia, tutte quelle persone che sbagliano vedessero finalmente la luce e abbandonassero le loro illusioni? Allora potremmo andare avanti armoniosamente insieme.

Sarebbe davvero una buona notizia, ma io ho una notizia ancora migliore. Non è quello che è successo. In realtà nessuno dei due ha cambiato le proprie opinioni.

Ora, perché questa dovrebbe essere una buona notizia? Non sarebbe meglio se le persone che hanno tollerato, sostenuto e incoraggiato un male così grande si rendessero conto del loro errore? Non dovrebbero chiedere scusa o essere esclusi?

Nota bene: Non sto indulgendo nella mentalità “entrambe-le-parti-sono-valide” o dicendo che la verità sta da qualche parte tra i due poli. Ho già espresso il mio punto di vista sulle questioni Covid in modo chiaro a tutti. Penso inoltre che sia importante imparare dai nostri errori, rimuovere da posizioni di fiducia coloro che ne hanno abusato, e riformare o abolire i sistemi che permettono di continuare a fare del male. E sì, naturalmente voglio che le convinzioni che stanno alla base di quei sistemi cambino, e continuerò a lavorare per questo obiettivo. Tuttavia c’è qualcosa che viene prima di tutto questo.

La coppia è tornata insieme perché loro hanno scelto di mettere l’amore al di sopra dei loro disaccordi.

Noi, come loro, accoglieremo di nuovo nella nostra “famiglia” coloro che hanno un universo di credenze differente?

C’è una cosa che dovrebbe essere ovvia: le persone decenti e compassionevoli predominano da tutte le parti delle varie guerre sul Covid. Nonostante si tenda a fare delle caricature della parte contraria alla propria, la maggior parte di coloro che sono favorevoli al vaccino non sono stupide pecore, e la maggior parte degli scettici sui vaccini non sono ignoranti bavosi. Quando aderite a uno di questi universi (quello mainstream o quello dissidente) sembra quasi inconcepibile che una persona intelligente e moralmente rispettabile possa rientrare nell’altro; eppure è così.

Ecco un paradosso: quando mettiamo l’amore al primo posto e diamo una priorità inferiore al fatto di far cambiare idea all’altra parte, l’altra parte sarà più propensa a cambiare idea. E cambiare idea non diventa più un atto di capitolazione e sottomissione. La propria dignità non ha bisogno di accompagnare le proprie opinioni sul piatto del sacrificio. La discussione non diventa più una gara di volontà o una lotta per il dominio.

Questo è particolarmente importante perché, in una gara di volontà, il risultato più probabile è il compromesso. La pandemia sarà stata un’occasione sprecata se il risultato sarà un nuovo status quo a metà tra la normalità pre-Covid e la nuova normalità dell’autoritarismo tecno-farmaco-politico-aziendale. Quindi, per favore, non fraintendetemi pensando che io dica che dobbiamo semplicemente dimenticare che tutto questo sia mai accaduto. Ci sono torti profondi da riparare. Il Covid ha messo a nudo i meccanismi abusanti del potere, ci ha mostrato la direzione che abbiamo preso e ha rivelato mali sociali latenti che ora possono essere guariti.

Una grande resa dei conti sta arrivando. Tuttavia, teniamo presente il fine ultimo che serviamo: accogliere tutti come membri divini della famiglia umana. Ci possono essere conflitti lungo la strada ma dobbiamo riconoscere che la vittoria in un conflitto non è mai la soluzione finale. Né possiamo servire il nostro vero obiettivo disumanizzando temporaneamente il nemico come tattica di guerra, con l’idea di riumanizzarlo dopo che la vittoria sarà nostra. No. Il modo in cui ci comportiamo adesso prefigura il futuro che sarà.

Sono sicuro che ognuno dei coniugi tedeschi ha molto da perdonare all’altro. Così è anche nella nostra società. Molte persone hanno fatto dei torti ad altri. Tuttavia avere credenze sbagliate non è tra questi misfatti.

Che quanto segue non sia un semplice slogan spirituale. Che quanto segue sia reale:

Accogliamo con amore i nostri fratelli e sorelle umani.

Mettiamo la guarigione al di sopra della vittoria.

Mettiamo il ricongiungimento al di sopra della rivendicazione.

Non permettiamo a nessuno di violare la dignità e la sovranità degli altri. E non odieremo nessuno per averlo fatto.

Insisteremo affinché il male che viene fatto cessi. STOP! E non pretenderemo che qualcuno ammetta di aver sbagliato.

Rimuoveremo dal potere coloro che hanno abusato della nostra fiducia e cancelleremo la corruzione dai sistemi di potere. E non puniremo gli abusatori.

Quest’ultimo è il più difficile da accettare per la maggior parte delle persone. Lo dico perché vedo chiaro come il sole nascente che c’è una scelta che si avvicina a noi. Un giorno ci troveremo a scegliere tra la soddisfazione della punizione e il far cessare i torti fatti. Può sembrare che queste due cose siano spesso la stessa cosa (la dissuasione, il dare l’esempio e simili) ma non sono sempre la stessa cosa, e un giorno ognuno di noi si troverà a scegliere di cosa porsi al servizio. Che aspetto ha la giustizia se la separiamo dalla punizione? Che aspetto ha la responsabilità se la separiamo dai premi e dalle pene? Che aspetto hanno le scuse se le sleghiamo dalla sottomissione? Queste sono le domande che devono prendere vita se vogliamo raggruppare la famiglia umana.

L’impulso di spingere

di Charles Eisenstein

Tradotto da Debora T. Stenta dall’originale che è disponibile qui

Marinai su un mare in bonaccia,

percepiamo il mormorio di una brezza.

Carl Sagan

Il collettivo umano, negli ultimi anni, è entrato in una nuova fase del suo processo di nascita.

Attingerò al concetto di Stanislav Grof di matrici perinatali, una descrizione in quattro fasi della psicodinamica della nascita. Lo stadio 1 è l’Universo Amniotico, l’Unione Originaria con la Madre. L’utero fornisce al feto tutti i suoi bisogni, e lui cresce apparentemente senza alcun limite, lotta o sforzo. Anche se vari tipi di stress materno possono colpire il feto, la natura fa del suo meglio per proteggerlo da traumi gravi.

La fase 1 cede il passo alla fase 2, quando la creatura crescendo incontra i limiti dell’utero e cominciano le contrazioni. Il paradiso diventa un inferno quando la pressione aumenta senza apparente via d’uscita. È l’inferno dell’Inghiottimento Cosmico, Senza Nessuna Uscita. È una situazione sempre più intollerabile che soggettivamente si vive come se dovesse durare per sempre. È ciò che è diventata l’esistenza. La mancanza di speranza e la disperazione sono caratteristiche di questo stadio.

Lo stadio 3 inizia quando la cervice si apre e la creatura inizia il viaggio attraverso il canale del parto. Le contrazioni, lo stringere e lo spingere, si intensificano, ma poiché una destinazione si avvicina, questo stadio è normalmente meno infernale del precedente, anche se richiede ogni risorsa della madre e della creatura.

La fase 4 è l’emergere in un nuovo mondo. Non si può tornare indietro. Una profonda separazione è avvenuta, eppure (almeno nelle pratiche tradizionali del parto) la creatura è riunita con la madre che la tiene al seno. La creatura è ora un membro della società e inizia una nuova fase di sviluppo.

Applicando questa mappa alla civiltà umana, la fase 1 è stata la lunga curva di crescita esponenziale della società umana che ha consumato la vasta abbondanza di Madre Natura senza limite apparente. Anche quando le risorse erano esaurite in un luogo, c’era sempre un territorio vergine, minerali, foreste e culture da sfruttare. L’espansione ha consumato non solo le risorse naturali ma anche il selvatico che è dentro di noi. È stata la colonizzazione delle culture del dono da parte del denaro e dei mercati; dei modelli tradizionali di organizzazione sociale da parte della legge, della polizia e del governo; dell’architettura vernacolare da parte delle norme edilizie; della medicina popolare da parte dei farmaci; della custodia della nascita da parte dell’ostetricia; delle comunità storiche da parte di generici complessi residenziali; dei canti in cerchio da parte del download di MP3; dei racconti popolari davanti al focolare da parte dei video su YouTube; del regno dell’infanzia da parte del regime scolastico; della cultura orale da parte della cultura scritta; della conoscenza specifica del luogo da parte di formule universali. Nessuno di questi sviluppi era un male incondizionato. È innegabile tuttavia che oggi c’è una povertà che rode e tormenta anche le persone più ricche e una tristezza per la perdita di qualcosa di non riconosciuto che nessuna nuova distrazione può lenire.

Se dovessi scegliere una data per il passaggio dalla fase 1 alla fase 2 sarebbe il 1917. Dopo i tre anni di ferocia su scala industriale della prima guerra mondiale, quello fu il momento in cui si radicò fermamente l’oscuro sospetto che forse, in fin dei conti, la scienza, la ragione, la tecnologia e la loro applicazione industriale non sarebbero state la liberazione dell’umanità. Alcune persone cominciarono a vedere che la civiltà aveva raggiunto un vicolo cieco.

L’utero era ancora comodo allora, ma la pressione stava crescendo. Non sto parlando tanto di limiti ecologici alla crescita (come sostengo nel mio libro sul clima, se perdiamo le nostre rimanenti remore a distruggere tutto ciò che è bello e vivo, la terra può ancora ospitare la nostra espansione futura a lungo). Sto parlando piuttosto di quel sentimento di futilità, insensatezza, di Senza Nessuna Uscita che è germogliato in quel periodo nel movimento esistenzialista. Stavamo ancora crescendo, ma non stavamo andando da nessuna parte. Nel secolo successivo quel sentimento si è diffuso oltre le avanguardie culturali per inghiottire la massa del mondo sviluppato. Infatti accompagna lo sviluppo (in luoghi che sono ancora “in via di sviluppo” secondo il modello industriale, la speranza anima ancora le promesse dello sviluppo. Ma man mano che lo sviluppo procede il vuoto della sua promessa diventa più evidente. Il risultato è un collasso del senso, del significato e dell’identità che si aggrava man mano che i mezzi e metodi che abbiamo ereditato ci deludono ripetutamente).

La scienza e la tecnologia, la medicina moderna e la robotica, la scienza sociale e il governo razionale non promettono più il paradiso. Quelle promesse languono nel museo del futurismo degli anni ’50. Oggi la loro migliore offerta è solo quella di rendere la vita tollerabile, di ripristinare la normalità o di raggiungere la “sostenibilità”.

Così potrebbe pensare anche un feto mentre la pressione si abbatte da ogni direzione senza apparente via d’uscita. Come posso rendere tutto questo un po’ più tollerabile? Si sposta e si contorce ma non trova alcun sollievo.

So di non essere la sola tra le persone culturalmente sensibili che nell’ultimo anno hanno fronteggiato un’abissale disperazione. Ma ora sento che i venti sono cambiati. La nave continua ad avanzare sotto la sua vecchia inerzia, ma una nuova brezza si agita.

Quando la cervice si apre le contrazioni non si placano; si intensificano. Siamo sull’orlo di convulsioni sociali al di là di qualsiasi cosa che abbiamo visto in America per 160 anni e in Europa per 70. (In altri luoghi questo processo è condensato in un arco di tempo più breve e schiacciato tutto insieme in un’accozzaglia accelerata e non lineare). Le contrazioni possono assumere la forma di collasso economico, disastri naturali, disordini politici o conflitti sociali. Vecchie certezze, durate generazioni o addirittura secoli, si dissolveranno ad una velocità sorprendente.

L’agitarsi della “nuova brezza” è diventata una tempesta. Le nuvole non sono più solo all’orizzonte. Sentiamo il rombo del tuono prima del diluvio: interruzioni della catena di approvvigionamento, incendi boschivi, inondazioni e siccità, disordini civili, rottura del sistema di trasporto, interruzioni di internet e di energia, estremismo politico, inflazione accelerata e così via.

Questo è il momento in cui, come si dice, “sono cazzi amari”. Per molte persone è già così: il sottoproletariato, i malati, i perseguitati, gli affamati. Sono stati relativamente invisibili alla maggior parte della società, ipnotizzata dallo spettacolo. Sempre più spesso, però, succede che i problemi di Jay-Z o Kim Kardashian non sono più così affascinanti. Lo sport, il gossip sulle celebrità e l’intrattenimento non saranno più in grado di tenere a bada la realtà. La notizia non diventa più una storia su uno schermo. Invade la vita. Gli eventi iniziano ad accadere a noi, non a qualcun altro da qualche altra parte. La normalità cesserà di esistere, perché ora siamo nel passaggio. Sta iniziando.

In altre parole, stiamo entrando in un periodo di sforzo in cui è ovvio che qualcosa di importante è in gioco e le nostre azioni contano. Ci stiamo muovendo verso il basso, lungo il canale del parto. Immense pressioni si abbatteranno su di noi, si fermeranno per un po’ e poi si abbatteranno di nuovo.

Per la maggior parte della mia vita, nell’arena nazionale e globale ogni anno che passava sembrava uguale all’ultimo, cioè un prevedibile deterioramento. Questa cosa sta cambiando. Il 2020 non è stata un’aberrazione. La normalità non tornerà. Potremmo scivolare un po’ indietro dopo ogni contrazione, ma mai indietro fino in fondo. Ogni contrazione ci spingerà in un nuovo territorio. Questo non significa che la situazione mondiale migliorerà gradualmente, anzi. Si intensificherà ad ogni contrazione fino al momento in cui nasceremo.

Andremo da qualche parte. Non posso offrire prove di questo, solo la metafora, la fede e un appello al vostro intuito. Ma ecco un segno: la stasi che ci ha reso senza speranza e cinici è finita. Questo non significa che è il momento di sedersi e aspettare la nostra liberazione. È proprio il contrario: è il momento di fare sul serio e di agire come se la vita dipendesse da questo. Nel parto la madre fa la maggior parte del lavoro, ma anche la risposta della creatura è importante. Partorire una creatura viva è più facile che partorirne una morta. Questo non significa che la vita sia uno sforzo. Per lo più non lo è o non deve esserlo. Ma ci sono momenti di sforzo, come quando il germoglio spinge attraverso la terra, o la farfalla esce dal bozzolo. Le circostanze ci spingeranno presto fuori dalla nostra zona di comfort. Una zona di comfort che, come il grembo materno, è stata a lungo scomoda.

Immagina cosa significa essere una creatura nel canale del parto. Sei soggetta a quelle che, dalla tua prospettiva, sono pressioni titaniche. Il mondo intero grava su di te. Non hai idea di ciò che ti aspetta; niente nella tua vita finora poteva prevedere le nuove esperienze che ti aspettano: respirare, fare la cacca, succhiare il latte, vedere, annusare. Tuttavia, a qualche livello, anche in mezzo all’intensità, sai che qualcosa ti aspetta. La stessa cosa è per il collettivo umano.

Questa conoscenza è valida anche se non c’è garanzia che nasceremo vivi. Questa incertezza aiuta a rendere reale il passaggio. Un neonato prova un enorme senso di realizzazione, una soddisfazione di tutto il corpo per aver completato un duro viaggio. Questo è uno dei motivi per cui i cesarei non necessari dal punto di vista medico sono così dannosi. Derubano la creatura e la madre di una conquista primordiale e fondamentale. Senza quel senso di “posso farcela!” la persona può essere suscettibile all’autoritarismo infantilizzante che sempre più spesso fa funzionare la nostra società. Senza questa esperienza archetipica di sforzo e riuscita può tendere alla docilità e all’impotenza, non credendo al suo potere e alla sua capacità d’azione, disposta a lasciare che altri lo facciano, dando il suo potere a qualche salvatore, Donald Trump, Bill Gates o quei benevoli scienziati e medici. Ma non tutto è perduto: l’anima del neonato privato di quell’esperienza di sforzo e di riuscita può ingegnarsi nella sua vita, mettendo in atto le fasi della nascita mancanti. Prima la fase 2: depressione, disperazione. Poi una lotta tra la vita e la morte, ad esempio una sfida nella salute. O una relazione abusiva in cui deve finalmente uscire dalla situazione, riuscire ed entrare in un nuovo mondo con un senso di realizzazione. Non sto dicendo che i cesarei salvavita siano una cosa brutta o che i bambini nati in quel modo siano irreparabilmente danneggiati; tuttavia, le scelte di nascita dovrebbero includere tali considerazioni, per quanto invisibili alle analisi statistiche dei rischi e dei benefici.

Non sono sicuro di quale sarebbe l’equivalente di un cesareo per l’umanità. Forse sarebbe l’arrivo di extraterrestri benevoli che ci salvano da noi stessi. Finora non l’hanno fatto, forse perché abbiamo ancora la possibilità di farlo da soli. Anche se ho assistito solo a quattro nascite (sono state le quattro migliori esperienze della mia vita), altre madri hanno confermato quello che ho notato: che c’è spesso un momento, mentre la creatura si muove lentamente attraverso il canale del parto, che sembra impossibile. Un momento della serie “Non ce la posso fare”. Di solito, però, lei può farcela.

Anche noi possiamo. Il processo che l’umanità sta attraversando non è stato progettato per essere impossibile, ma solo per sembrare impossibile in un momento chiave. Noi ce la possiamo fare. È il motivo per cui siamo qui.

Qui la metafora comincia a vacillare. Chi è la madre? È Madre Natura, che dedica ogni risorsa al processo di nascita. È anche Madre Cultura, che fa lo stesso. Né la natura né la cultura sono separate da noi stessi. Noi siamo la creatura, e siamo anche la madre, e siamo la custode della nascita. Tutte portano la loro attenzione a ciò che in questo momento è diventata l’unica cosa importante: la vita.

Il contorcersi e lo stirarsi del bambino nel canale del parto è proprio questo: lo sforzo verso la vita. Questo è il principio guida del nostro parto collettivo. È servire la vita, riverire la vita e rivendicare la vita. Ha una dimensione ecologica (servire la vita nel suo senso biologico) e ha una dimensione politica: reclamare la vita umana da istituzioni oppressive. Include la volontà di sopravvivere, sì, ma vivere non è semplicemente sopravvivere. Molti di noi sono sopravvissuti, vivi a metà, per troppo tempo. L’impulso della nostra nascita è vivere, come verbo attivo.

In quale mondo veniamo partoriti? Non cercherò ora di descrivere il mondo che attende l’umanità dall’altra parte del canale del parto. Se volete conoscerlo, potete attingere alle visioni, alle memorie ancestrali e alle visite che il futuro fa nel presente e che prendono la forma di varie età dell’oro; esperienze di picco; miracoli di pace, perdono e generosità; esperimenti sociali utopici che nel loro fallimento ci hanno mostrato ciò che potrebbe essere senz’altro possibile. Questi indizi sono come i suoni, le voci e i fiochi spostamenti di luce che danno al feto accenni dell’altro mondo. Ora, però, l’importante non è sapere come sarà il mondo oltre il canale della nascita. È importante semplicemente sapere che esiste e che possiamo raggiungerlo. La cervice è aperta. C’è una luce alla fine del tunnel ed è arrivato il momento in cui si avverte l’impulso di spingere.

Oltre la medicina industriale

di Charles Eisenstein

Articolo tradotto da Pietro Bertoni con la collaborazione di Debora T. Stenta; l’originale è disponibile qui

Mettiamo che sono dipendente dagli antidolorifici da prescrizione. Tu sei il mio amico preoccupato e mi dici: “Charles, davvero devi darci un taglio con queste medicine. Ti stanno rovinando la salute, e un giorno potresti andare in overdose.”

“Ma non posso smettere. Provo costantemente dolore. Se non li prendo non riesco a fare nulla. Ho un terribile mal di schiena e i miei dottori dicono che non c’è niente che si possa fare.”

Se accetti le premesse della mia risposta, avrai poco da dire. Se entrambi accettiamo che non esiste altro modo per alleviare il dolore, e che la causa del dolore è incurabile, allora ho ragione, devo continuare a prendere l’antidolorifico.

Ora parliamo del glifosato, l’erbicida tanto cattivo che Monsanto commercia col nome di Roundup. I critici mettono in luce dei punti convincenti sui suoi effetti sulla salute umana ed ecologica. I difensori confutano questi punti, almeno per la soddisfazione delle autorità di controllo. Il dibattito infuria ormai da decenni. Un punto che indicano i difensori del Roundup è questo: “Guarda, il Roundup è l’erbicida ad ampio spettro più efficace che abbiamo. Se smettessimo di usarlo i rendimenti dei raccolti crollerebbero. Dovremmo usare altri erbicidi meno efficaci che potrebbero anche essere più tossici per l’uomo e per l’ambiente. Il Roundup è l’opzione più sicura ed economica che esista.”

E qui ancora, se accettiamo queste premesse, abbiamo percorso al 90% la strada che porta ad ammettere quella tesi. Limitando il dibattito al solo Roundup, ai suoi relativi rischi e benefici, accettiamo implicitamente come scontato l’intero sistema agricolo di cui il Roundup è parte. Se prendiamo per scontato un sistema agricolo monoculturale industrializzato, allora i difensori del Roundup potrebbero avere ragione.

Abbiamo bisogno del Roundup, o qualcosa di simile, per far funzionare il sistema attuale. Se non lo cambiamo, allora proibire il Roundup risulterebbe soltanto in una sostituzione con altri erbicidi: nuovi agenti chimici o tecnologie genetiche che avranno i loro pericolosi effetti collaterali.

La maggior parte dei critici del glifosato non sono motivati dal desiderio di rimpiazzarlo con un altro erbicida. Piuttosto, il glifosato è un punto focale per la critica dell’intero sistema dell’agricoltura industriale. Se avessimo un sistema agricolo su piccola scala, biologico, rigenerativo, ecologico e diversificato, il glifosato non sarebbe una grossa questione, perchè difficilmente sarebbe necessario. Come ho ampiamente documentato nel mio libro sul clima (n.d.t. “Climate – A New Story”), questa forma di agricoltura può superare di gran lunga l’agricoltura industriale in termini di raccolto per unità di superficie (benché necessiti di più lavoro, più lavoratori, più piccoli contadini).

Quindi è necessario mantenere il glifosato o no? Se diamo per scontato l’attuale sistema agricolo, allora forse sì. La conversazione che potremmo avere è sul sistema stesso. Se ignoriamo questo punto, allora il dibattito sul glifosato è una distrazione. Uno può comunque opporsi sul piano tecnico, ma la critica più forte non è al prodotto chimico di per sé, ma al sistema che lo richiede. I bravi ragazzi della Monsanto probabilmente danno per scontato il sistema, e non riescono a capire perché i loro sforzi diligenti per farlo funzionare un po’ meglio siano così fraintesi dagli ambientalisti che li considerano come delinquenti.

Lo stesso schema si applica a ciò che è definita “salute mentale”. Tredici anni fa scrissi un saggio, “Mutiny of the Soul” (Ammutinamento dello Spirito), che descriveva varie condizioni mentali, ad esempio depressione ed ansia, come forme di ribellione contro un mondo malsano. Definendo queste condizioni malattie e trattandole con psicofarmaci, sopprimiamo la ribellione e aggiustiamo l’individuo per calzare nella società così com’è.

Se accettiamo come giusta e buona la società così com’è, allora per forza un individuo disadattato è un individuo malato. E se anche prendiamo come normali (o manchiamo di vedere) le condizioni che rendono infelici le persone, come l’isolamento sociale, i traumi irrisolti, la dieta Americana standard, la mancanza di natura, l’inattività fisica, le forme di oppressione razziale, economica o altre, allora di nuovo abbiamo poche alternative se non quella di riparare l’individuo. E se escludiamo dalla considerazione le modalità non farmacologiche di “riparazione”,¹ allora rimaniamo con medicine come gli antidepressivi. Perciò, coloro che hanno criticato l’articolo e il suo sequel avevano perfettamente ragione, all’interno della loro cornice di riferimento. “Queste medicine, anche se a volte abusate, sono interventi forti e necessari che hanno recuperato tante persone dalla depressione e hanno permesso loro di vivere vite normali.” Tralasciando gli studi in cui questi farmaci non riescono ad avere risultati che superano quelli dell’effetto placebo, se manteniamo costanti tutte le altre variabili, si potrebbe ragionevolmente sostenere che sono una tecnologia vantaggiosa, esattamente come il glifosato lo è nel contesto dell’agricoltura industriale.²

In un simile filone, coloro che accettano la bontà, la correttezza o l’inalterabilità di base del sistema attuale, vedranno i suoi critici come psicologicamente infermi. Parecchie persone mi hanno domandato, spesso dolcemente e con le più gentili intenzioni, se il mio scetticismo nei confronti dei vaccini e del sistema sanitario mainstream, sia una messa in scena di ferite di traumi infantili irrisolti riguardo l’autorità. Mi sto ribellando contro vere ingiustizie, o l’autorità medica è un sostituto di mio padre (quel vecchio tiranno che non mi faceva stare sveglio oltre il mio tempo massimo consentito per guardare “Tutti in Famiglia”). Potrei soffrire del disturbo oppositivo provocatorio. A quelli che accettano l’autorità medica come buona e giusta di base, parrebbe ragionevole che il mio sospetto nei suoi confronti debba venire da qualche tipo di psicopatologia. 

Gli esempi del glifosato e degli antidepressivi illustrano come persone perfettamente perbene possano partecipare al danno semplicemente attraverso l’accettazione dei sistemi e delle realtà da cui sono immerse. La malizia è una spiegazione scadente.³ Questa è una delle intuizioni che hanno lanciato la mia carriera da scrittore. Ho passato quindici anni tenendo in mente un’unica domanda: Qual’è l’origine di ciò che è sbagliato? Ho scoperto che i sistemi e le realtà già menzionate sono prodotti di ideologie così profondamente intrecciate nel tessuto della civiltà da esserne quasi inseparabili. E’ stato qualche genio del male ad architettare il concetto del Sé diviso e separato, abbandonato in un universo arbitrario di forza, massa, atomi e vuoto? No, quella mitologia si è evoluta organicamente, raggiungendo il suo culmine nel nostro tempo. E’ in effetti troppo maturo, ma il frutto – i sistemi che abitiamo e che abitano in noi – deve ancora cadere dall’albero. Quando lo farà si aprirà e crescerà il seme di un nuovo tipo di civiltà.

Okay, i vaccini Covid. Potremmo discutere riguardo i loro danni e benefici relativi, ma ancora una volta restringendo la conversazione diamo per scontato il sistema nel quale essi naturalmente calzano. E adesso vi farò una vera e propria rivelazione: la mia opinione personale è che, anche tenendo costanti altre variabili, i rischi e i danni superano di gran lunga i benefici. L’ultima volta che l’ho scritto in un saggio ho ricevuto un sacco di critiche per non aver “documentato le affermazioni”, nonostante avessi detto che era un’opinione e non un’affermazione. E nemmeno ora lo rivendicherò, né cercherò di documentarlo: 1) perché molte delle fonti che utilizzerei risulterebbero inaccettabili alla maggior parte delle persone che sono in disaccordo con me, e dovrei quindi aprire una discussione complessa di pregiudizi sistemici nell’ambiente dell’informazione; 2) perché la mia opinione attinge molto da praticanti nelle mie cerchie che vedono i danni in prima persona, e non posso citarli utilizzando documenti pubblicamente disponibili; 3) e soprattutto, perchè ora voglio allargare la conversazione al sistema della medicina industriale, che ha una stretta somiglianza in molte dimensioni con il sistema dell’agricoltura industriale. Inoltre, dal momento che non sto facendo false “affermazioni”, i censori scrupolosamente logici dei social media non saranno in grado di eliminare questo saggio. Ah! Colpito e affondato!

Se accettiamo come un dato di fatto lo stato attuale della salute pubblica insieme ai paradigmi imperanti della medicina moderna, allora il caso della vaccinazione è quantomeno discutibile, così come lo è il caso del glifosato nel contesto dell’agricoltura industriale.⁴ Potremmo discutere dei danni relativi al vaccino, degli studi di progetto, della soppressione di informazioni da parte di interessi aziendali, degli ingredienti non etichettati, della sottostima al VAERS (ente di raccolta delle reazioni avverse) e così via, ma nell’intraprendere quel particolare dibattito, entrambe le parti concordano implicitamente di non parlare di ciò che si trova al di fuori dei suoi confini.

Cosa c’è al di fuori del dibattito sulla sicurezza dei vaccini? Ci sono: i trattamenti alternativi naturali ed efficaci per il Covid; la superiorità dell’immunità naturale rispetto a quella indotta dai vaccini; il “terreno” di infezione (perchè alcune persone sperimentano una forma grave di malattia o morte, ed altri no); il ruolo positivo che i virus, anche quelli patogeni, giocano nella salute e nell’evoluzione; il declino della virulenza nel tempo; le implicazioni sociologiche del consegnare la sovranità della salute nelle mani delle autorità governative.

Praticamente, i vaccini non sono altro che una modalità per mantenere in funzione la società come noi la conosciamo. L’idea è: “Tutti si fanno il vaccino e torniamo alla normalità.” E’ molto simile ai farmaci psichiatrici. Dando per scontata una società che rende infelici un gran numero di persone, allora forse abbiamo bisogno di quei farmaci per renderle felici, o almeno funzionanti. Possono tornare alla normalità, alla vita definita dalle norme della società. Eppure quella vità è ciò che potrebbe averle rese infelici, tanto per cominciare. Allo stesso modo, ciò che abbiamo concepito come normale include le condizioni che determinano la necessità (presumibilmente, comunque) del vaccino in primo luogo.

La normalità è stata una società in cui l’autoimmunità, la dipendenza, il diabete, l’obesità ⁵ e altre condizioni croniche sono a livelli epidemici. Questa epidemia è in realtà abbastanza recente. Negli anni cinquanta la diffusione del diabete negli Stati Uniti era un decimo di quella attuale. L’obesità un terzo. Le malattie autoimmuni erano patologie rare. Siccome le morti da Covid si presentano in persone con diabete e altre condizioni croniche, l’intero contesto della politica sui vaccini include condizioni che sono storicamente aberranti.

La normalità è stata la privazione dell’autonomia delle persone di mantenere in salute se stesse e la propria comunità, rendendole invece dipendenti dall’operato degli esperti su di loro. Il “paziente” è passivo, sopportando pazientemente ciò che il dottore esperto gli fa.

La normalità è stata un onnipresente fobia della morte che adora l’altare della sicurezza e sacrificherebbe tutto ciò che promette sicurezza, anche a costo delle libertà civili, della libertà personale e dell’autodeterminazione della comunità.

La normalità è stata la marginalizzazione delle modalità di cura olistiche e naturali che offrono trattamenti efficaci per il Covid e molte altre condizioni. Oops, questa frase verrà segnalata come disinformazione. Dove sono i dati, Charles? Beh questo è parte del problema. La società non ha devoluto vaste risorse alla ricerca e allo sviluppo di fitoterapie, terapie nutrizionali, vibrazionali, e altre terapie non ortodosse come invece ha fatto per quelle farmaceutiche. Non rientrano nel sistema di finanziamento e nemmeno nel paradigma. Quindi, le prove a livello di più studi su larga scala in doppio cieco controllati con l’effetto placebo sono scarsi. Inoltre, poichè molte terapie alternative dipendono da relazioni uniche fra il paziente e il terapeuta, trattamenti personalizzati, o lavoro attivo da parte della persona in guarigione, esse sono intrinsecamente incompatibili per test standardizzati. I test standardizzati che producono i “dati” precedentemente menzionati, richiedono il controllo delle variabili. Sono parte di ciò che ho chiamato medicina industriale: “industriale” riguarda la standardizzazione, il controllo, la quantificazione e la scala.

Questo non vuol dire che i trattamenti olistici e alternativi per il Covid o per qualsiasi altra malattia manchino di evidenza. Tutt’altro. Ma per accedere al loro pieno potere ci si deve avventurare in aree che vanno oltre i paradigmi e le prove industriali.

Mi piacerebbe immaginare, quindi, una normalità diversa. Si discosta dal sogno dell’industria di rifare la terra, la vita e l’essere umano a sua immagine. È la normalità dell’età dell’ecologia, l’età della relazione, l’età della comunità, l’età della riunione.

In quel futuro, è normale vedere la salute come una questione di buone relazioni all’interno del corpo e al di fuori di esso. La società ridistribuisce le centinaia di miliardi che spende per l’assistenza ai malati verso la comprensione e il ripristino di queste relazioni. Ogni terapia olistica, erboristica, omeopatica, nutrizionale o energetica concepibile è seguita, provata, testata, migliorata e se efficace, resa disponibile.

In quel futuro, diventa inoltre normale prendersi responsabilità per la propria salute e ricevere supporto nel farlo (perché la volontà personale non è sufficiente, siamo esseri sociali e abbiamo bisogno di supporto). Il supporto è economico, legale e infrastrutturale.

Ho chiesto a mia moglie Stella, una guaritrice estremamente efficace, cosa pensa possa diventare l’assistenza sanitaria. Ha detto, “Potrebbe diventare un ambito in cui riconosciamo la mente e il corpo come un continuum; in cui non vediamo la malattia come una sfortuna casuale; in cui sappiamo che la cura risonante e il mantenimento dello spazio per l’emergere della totalità possono guarire, e che chiunque può fare ciò; in cui possiamo riportare la medicina alle persone”. Vedo Stella aiutare persone a guarire da reali condizioni mediche quasi tutti i giorni. A volte sono condizioni che i medici ritengono incurabili. Il potere di queste tecniche (e di tante altre nel mondo alternativo) è reale, e possono essere insegnate, e una nuova normalità può essere costruita su di esse.

Si, possiamo riportare la medicina alle persone. Il potere di guarire noi stessi e gli altri, come molto della vita moderna, è stato professionalizzato, trasformato in un altro insieme di beni e servizi. Possiamo recuperare il potere. Il futuro della medicina non è High-Tech. La tecnologia ha il suo posto (per esempio nella medicina d’emergenza), ma ha usurpato il posto di altri poteri: la mano, la pianta, la mente, l’acqua, il suolo, il suono e la luce. Possiamo immaginarci un sistema sanitario che esaudisca le promesse delle alternative mediche che hanno toccato milioni di vite nell’ombra del sistema convenzionale? Queste alternative dovrebbero smettere di essere tali. Suvvia gente, questa roba funziona davvero. Hanno guadagnato slancio nell’ultimo mezzo secolo nonostante la ridicolizzazione, l’emarginazione, la mancanza di fondi e la persecuzione da parte delle istituzioni tradizionali. Funzionano. Prendiamole seriamente. Sappiamo come essere sani. Ricostruiamo la società attorno a questa conoscenza.

Nessuna autorità durante il Covid ha detto, “La gente è malata, ha bisogno di più tempo all’aperto. La gente è malata, ha bisogno di più contatto. La gente è malata, ha bisogno di una sana flora intestinale. La gente è malata, ha bisogno di acqua pura. La gente è malata, ha bisogno di meno inquinamento elettromagnetico. La gente è malata, ha bisogno di meno chimica nel cibo. La gente è malata, mettiamo le avvertenze sul diabete sulle bibite gassate. La gente è malata, incoraggiamola a meditare e pregare di più. La gente è malata, portiamola nei giardini. La gente è malata, rendiamo pedonali le nostre città. La gente è malata, puliamo l’aria. La gente è malata, forniamo la bonifica gratuita della muffa su tutte le abitazioni. La gente è malata, promuoviamo l’educazione sulle erbe locali. La gente è malata, mettiamo a disposizione di tutti i migliori integratori e le pratiche dei biohacker e dei guru della salute. La gente è malata, saniamo i nostri terreni agricoli.” Nessuna di queste è difficile quanto tenere ogni essere umano a distanza di un metro da tutti gli altri. Quindi facciamo queste cose. Rifacciamo la società a loro immagine con lo stesso zelo con cui abbiamo rifatto la società nell’anno del Covid.

Sto dicendo di non parlare di vaccini e focalizzarsi soltanto sul quadro più ampio? No. I vaccini, i loro pericoli, i loro limiti, e le misure necessarie per costringere chi non li vuole sono la visibile punta di un iceberg, che mostra chiaramente il sistema che rappresentano. Sono una finestra in un futuro di dipendenza tecnologica in cui mettiamo nei nostri corpi tutto ciò che le autorità ci dicono, e ci chiediamo perché la promessa di salute, libertà e un ritorno alla “normalità” sia sempre all’orizzonte ma mai qui e ora.

Un altro futuro ci chiama. Non ci verrà consegnato dalle stesse autorità e dagli stessi sistemi che governano oggigiorno; siamo noi a doverlo reclamare. Lo rivendichiamo attraverso le scelte che offre. Verso quale futuro ti porterà il tuo prossimo passo? Verso una maggiore normalizzazione del mondo sotto controllo? O verso la nuova normalità che ho descritto? La strada si è biforcata. E’ tempo di scegliere.

NOTE

1) Esempi di trattamenti non farmaceutici per la depressione includono terapie psichedeliche, tai chi, Kundalini yoga, immersioni in acqua fredda, terapia a luce rossa, terapia di pulsione del campo elettromagnetico, e molte altre. Aspetta, ho appena dato un consiglio medico? Sbagliato! Non sto suggerendo che alcuna di queste funzioni veramente. No. Sto solo facendo fare esercizio alle mie dita. Nessuna delle precedenti dovrebbe essere interpretata come consiglio medico. Per favore confrontatevi con il vostro medico qualificato prima di provare una di queste terapie. Non siete qualificati per fare la vostra ricerca personale. Difatti, poiché la vita è sempre più medicalizzata, per favore non fate nulla, neanche uscire di casa, senza il permesso dell’autorità medica.

2) Per essere chiari, io penso che anche negli stretti termini dei rischi e dei benefici, sia il glifosato che gli antidepressivi sarebbe meglio non utilizzarli. Questo per i loro effetti collaterali, che l’industria tende a mascherare. Nel caso degli antidepressivi, questi includono qualsiasi tipo di problemi fisici, inclusi, molto probabilmente, l’omicidio e il suicidio. Il mio punto è che c’è un ragionamento da fare su di essi che per lo meno ha senso se consideriamo immutabile il sistema.

3) Certamente, gli individui spietati, maliziosi e psicopatici sono sovrarappresentati nelle élite del potere globale. Prosperano nel nostro sistema attuale, salgono in cima e trovano il modo di rimanerci. Ma il loro potere dipende dalle storie profonde che sto descrivendo qui. Non hanno creato quelle storie, ma le nutrono e si nutrono di loro.

4) Il caso dei vaccini obbligatori è molto più debole siccome la narrativa di una “epidemia dei non vaccinati” si sgretola e si accumulano evidenze che i vaccini non prevengono l’infezione o la trasmissione ma semplicemente riducono i sintomi.

5) Quando menziono l’obesità vengo spesso accusato di criticare chi è sovrappeso. Quindi lasciatemi dire che l’obesità non deve essere motivo di biasimo per la debole forza di volontà o le scelte stupide delle persone. È una funzione del trauma infantile, della programmazione sociale, degli ambienti tossici, di un’infrastruttura sociale in cui l’attività fisica è separata nella categoria dell’”esercizio”, dei bisogni insoddisfatti che vengono trasferiti sul cibo, di un ambiente alimentare privo di nutrimento genuino e di molti altri fattori. A volte l’eccesso di cibo non c’entra. Quando c’entra, criticare l’obesità diventa in realtà controproducente come modalità per incentivare qualcuno, specialmente se stessi, a perdere peso. Questo perché l’abuso di cibo (in particolare di zucchero) può essere un modo per compensare la mancanza di amore e accettazione incondizionati. E’ quando amiamo noi stessi e gli altri esattamente per ciò che siamo, che quella fase può essere completata e il cambiamento avvenire. Ho tenuto un piccolo corso online chiamato “Dietary Transformation” (Trasformazione dietetica) per esplorare e integrare nel pratico queste idee e quelle correlate.

Disimparare come percorso universitario

Da tanto tempo qui sul sito di Disimparando s’impara non pubblichiamo articoli.

La vita è stata molto intensa e gli schermi ci attraggono meno degli incontri di persona con esseri umani e non umani.

Ci è sembrato però che potesse stare bene qui un’intervista che è uscita da poco a Debora T. Stenta, una delle fondatrici di questo progetto.

Potete leggerla qui.

Un piccolo estratto come assaggio:

“La vita mi ha dato l’occasione di incontrare persone incredibili, esseri umani che vivono in modo resiliente e coraggioso, senza lasciarsi distrarre dagli obblighi su cui si radica la nostra cultura. Persone che non hanno avuto paura di andare contro corrente, anime che hanno saputo far fiorire la propria libertà di espressione. Ecco, vorrei che fossero proprio loro i primi “insegnanti” di questa nuova “accademia”. 

E vorrei che infondessero nello spirito dei loro “allievi” la stessa resilienza che hanno dimostrato nella vita, la stessa audacia nel seguire i propri sogni.

L’università del disapprendimento è selvatica e include anche la mia passione per “outdoor education” ed “experiential learning”, dove impari se fai, se tocchi, se esplori, se sbagli e riprovi; dove si apprende non più sui libri ma insieme a chi quei libri li ha scritti. 

L’obiettivo è quello di dare a tutti, giovani e non, l’occasione di esprimere l’incredibile potenziale che risiede in ognuno di noi, con fiducia e fierezza, sentendosi liberi di essere ciò che più si vuole, lasciandosi condurre da ciò che più muove al servizio verso la vita.

Così la stiamo costruendo, a diretto contatto con la terra e con le persone che la abitano con rispetto e gentilezza, elevandosi dal concetto di essere solo suoi figli ma diventandone i custodi, gli amanti. Perché il nostro posto è insieme a quello delle altre specie viventi su questo pianeta, che è esso stesso vivente e ama noi tanto quanto ama una zanzara, senza distinzioni di valore.

Le generazioni del presente possono ricollegarsi con l’essenza della vita e ricominciare a vivere con l’entusiasmo e la magia che accendono gli animi dei bambini, saggi maestri, che sanno ancora cogliere il messaggio di un fiore, mentre noi adulti spesso abbiamo bisogno di risvegliare ciò che ci permette di cogliere quel messaggio. 

Così, di nuovo vivi e connessi, potremo godere dell’infinita bellezza in cui siamo immersi”.

Ci vedremo presto nelle non aule dell’università…

Il Buono di Generosità

Immagina di ordinare qualcosa in un bar e pagare il tuo ordine. Invece di prendere solo la tua consumazione, pagarla e andartene, paghi il doppio del prezzo per un articolo, lasciandone uno già pagato alla persona successiva che lo ordina (un po’ come si fa con il “caffè sospeso” a Napoli).

Durante il pagamento, dai al cassiere un Buono di Generosità, chiedendo di consegnarlo alla persona successiva quando viene a pagare (ma non pagherà, perché l’hai già pagato tu), per fargli prendere coscienza dell’iniziativa.

Questo semplice atto avrà un profondo impatto su quella persona e sulla tua vita. Il Buono serve come promemoria e veicolo per un “contagio”.

Lo puoi usare in qualsiasi esercizio, servizio, negozio. Puoi creare un buono fatto da te, mettendoci proprio qualcosa di tuo. Vai e fai qualcosa di bello senza una ragione in particolare.

Libere riflessioni sull’economia del dono

ovvero

DISIMPARARE IL SISTEMA ECONOMICO DI MERCATO

di Raffaella Cataldo

Premessa: tutti noi vorremmo fare dei cambiamenti ma poi non abbiamo il tempo di farli… Noi vi proponiamo un piccolo passo: trovare il tempo per leggere questo articolo. Fino in fondo.  Un minuscolo passo. Che può generare grandi cambiamenti. 
Dopo tutto sentire di avere tempo per fare le cose è una sensazione che ha a che fare con il sentirsi ricchi, ed è proprio di ricchezza che parla questo articolo…

Sono in viaggio in treno, fra le lamentele per il ritardo accumulato, che probabilmente per qualcuno significherà la perdita della prossima coincidenza.

Certo che è vergognoso! I treni se non sono puntuali non servono a niente!”

Si bè, capitasse una volta ogni tanto… è che ormai quasi tutti i treni sono quasi sempre in ritardo! Càpita tutti i santi giorni!”

Infatti! E viaggiare in treno oggigiorno costa un sacco di soldi! Fosse gratuito, vabbè… dico, se è gratuito, pazienza, non posso mica pretendere una certa qualità… ma io per viaggiare su questa Freccia ho pagato, e anche salato!! Se pago un servizio, esigo che il servizio sia efficiente! Che cavolo!!”

Mi distacco dalla conversazione e guardo il paesaggio scorrere dal finestrino. Sono stata colpita da alcune parole, e mi chiedo: perché il concetto di gratuito è legato ad un concetto di pochezza e scarsa qualità? Perché l’idea di un servizio offerto in dono, dà la sensazione di qualcosa che non sarà all’altezza di quel che viene invece pagato?

Più di una volta mi è capitato di accompagnare persone in passeggiata in natura. Più di una volta mi è accaduto di assistere ad una scena simile a questa: compare un cespuglio di rosa canina, o di altre bacche invitanti e commestibili.

Si possono mangiare?” chiede la bimba alla mamma

La mamma mi rivolge uno sguardo interrogativo

Si” rispondo, sorridendo “si possono mangiare”.

La bimba si serve, ne prende una manciata, e così la mamma.

Al primo boccone, la bimba cambia espressione: “Phua! Mamma, sono troppo aspre, non mi piacciono!”

Va bene” dice la mamma con serenità placidissima “buttale pure a terra, se non ti piacciono”

La bimba lascia a terra la sua raccolta.

E si procede senza alcuna preoccupazione.

Non posso fare a meno di pensare a come sarebbe stato diverso il comportamento di questa madre, se la bimba avesse chiesto di acquistare quelle bacche in un negozio di primizie. La mamma infila i frutti in un sacchetto e paga 7.99 Euro alla cassa. Uscite dal negozio, la bimba le assaggia e dice che non le piacciono… Non sarebbero certo gettate in terra e, alla luce di quanto sono costate, il fatto che non piacciano potrebbe diventare un piccolo problema, o generare una breve lezione materna sui temi della responsabilità e dello spreco.

Perchè l’aver ricevuto quegli stessi frutti in regalo dalla natura, dall’infinita generosità di un albero, e non averli acquistati, può modificarne il valore percepito?

dono-foresta

La mia riflessione galoppa: nel panorama della nostra economia, in genere, un prezzo basso è sinonimo di scarsa qualità, mentre un prezzo alto è sinonimo di alta qualità. Tuttavia, l’arte dell’acquirente consiste nel riuscire a trovare merce con un rapporto qualità-prezzo conveniente. Le strategie della vendita con profitto e dell’acquisto con risparmio, consumano molta parte delle nostre energie quotidiane, e della nostra creatività.

Ciò che è gratuito, se compare sul mercato accanto a ciò che viene normalmente pagato, viene guardato con sospetto, ci fa torcere il naso: qui mi vogliono ingannare, attenzione! Oppure sappiamo già in partenza che si tratta di merce di serie b, tipo prodotti in scadenza o in qualche modo “fuori”: fuori moda, fuori stagione, fuori tutto.

La gratuità e la retribuzione hanno delle aree proprie di esistenza, che non possono contaminarsi: le opere di bene sono gratuite, le merci sono retribuite; si dà gratuitamente a chi è bisognoso, ma in condizioni “normali” va tutto normalmente “retribuito”.

Se la retribuzione entra nell’area del gratuito, è uno scandalo. Se il gratuito entra nell’area della retribuzione, è un inganno. L’idea di un missionario che si facesse pagare per soccorrere un malato grave in un misero villaggio lontano, ci fa inorridire. Una persona che ci dice che vuole regalarci la sua casa, ci mette in allerta.

Le parole dono, gratuità, regalo, rimangono ambigue, per certi versi oscure, tranne che a Natale… Momento che il capitalismo ha saputo sapientemente convertire in profitto!

Eppure ciò che di più prezioso abbiamo, la vita, ci viene donato, e nei primi anni, nelle braccia dei nostri genitori, tutto ci viene offerto gratuitamente.

Nelle aree in cui non è lecito ricevere doni, ci si affanna per aumentare il proprio profitto, guadagnando più che si può e cercando di spendere il meno possibile.

Questo discorso potrebbe forse innestare discussioni su leggi economiche e teorie di economisti, ma non è questo lo scopo.

Vorrei invece invitarci tutti ad aprire le nostre menti, fino ad ammettere onestamente che le leggi economiche sono state inventate da persone umane, e riguardano un’economia specifica (quella legata alla grande produzione industriale) e non l’economia umana in generale. Mi sembra anche che nella nostra cultura, si tenda a focalizzarsi sulle teorie e sulle leggi, perdendo di vista l’uomo che le ha formulate, per arrivare a dichiarare perentoriamente: “l’economia funziona così”, senza più ricordare che è stato l’uomo a creare quel funziona così, e che se è stato libero di crearlo, è libero pure di discrearlo.

Questo scritto è un semplice spunto per invitarci ad andare oltre la visione economica che ormai ci sembra scientificamente imprescindibile, e a provare a considerare cosa accade dentro di noi, che tipo di concezione di ricchezza e benessere siamo indotti automaticamente a vivere e realizzare, seguendo e materializzando questo tipo di economia.

dono-mani

L’economia di mercato, in cui lo scambio dei beni avviene attraverso un prezzo imposto e il relativo pagamento in denaro, innesca una forma mentale, una rappresentazione interiore di noi stessi, degli altri, della vita e del mondo, che ci fa concepire e vivere la ricchezza in certi modi piuttosto che in altri.

Veri e propri paradigmi sottintesi, che diamo per scontati, tanto da corrispondere alla nostra normalità, e che stanno alla base del nostro stile di vita quotidiano.

Innanzitutto la ricchezza viene vista come qualcosa che non è disponibile per tutti: la ricchezza è qualcosa di finito e limitato, ed è normale che se qualcuno ha, qualcun altro non ha.

Se ciascuno tenta di spendere il meno possibile e guadagnare il più possibile, ciò che si va a costruire nella nostra mente è la visione di una comunità in cui per qualcuno c’è di più e per qualcun altro c’è di meno, e non può esserci una prosperità collettiva.

Questo provoca inoltre una diffidenza di base fra le persone: io voglio maggiore profitto, perciò tutti gli altri intorno a me sono potenzialmente dei nemici che non mi consentono di avere di più perché anche loro vogliono di più.

Inevitabile la competizione: il mercato è una gara per avere prima e di più.

Inevitabile l’ansia di sopravvivenza e il senso di precarietà, per chi nella gara si classifica agli ultimi posti.

Ricchezza è sinonimo di avere, beni e denaro. Non riusciamo nemmeno ad immaginare (se non a livello teorico, poetico e religioso-spirituale) che la ricchezza potrebbe essere altro dall’accumulare denaro e beni, e a questo accumulo colleghiamo inevitabilmente stabilità, serenità e di conseguenza almeno un certo tipo di felicità.

Dare e ricevere non vengono concepiti come movimenti di un unico flusso, e preferiamo di gran lunga ricevere denaro piuttosto che darlo.

Anche se in questo sistema economico, per acquistare un bene o un servizio è giusto pagare, e non pagare è un crimine definito furto, in genere non si paga volentieri. E’ presente una sensazione sottile di perdita, quando si paga. Paghiamo, sappiamo che è giusto pagare, ma nell’atto di dare i soldi, non lo facciamo con generosità, ma cercando di trattenere. Ci sembra che dare diminuisca la nostra ricchezza.

Si dipinge un’atmosfera in cui scarseggia benevolenza reciproca, in cui, se non rubiamo materialmente, rubiamo interiormente, non volendo che la nostra ricchezza circoli fra le mani di altri, ma rimanga presso di noi, accumulandosi.

C’è un egoismo tacito e onnipresente che sta alla base di questa visione economica. Invidia e gelosia per chi ha più di me, e ribrezzo e rifiuto per chi non ha abbastanza, sono sentimenti che spesso emergono quando si volge lo sguardo agli altri.

Perdiamo di vista completamente che la sicurezza e la prosperità sono un fatto collettivo, e che io posso stare davvero bene, se bene sta anche il mio vicino di casa. Il mio benessere non può essere stabile e completo se finisce entro i confini della mia realtà: se in una comunità tutti stanno bene e sono soddisfatti, di rimando tutti stanno meglio e si sentono al sicuro, nelle relazioni come dal punto di vista materiale.

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L’economia di mercato, con propaganda mirata, attenta e costante, ci convince che occorre affannarsi ad accumulare e a soddisfare unicamente i nostri bisogni personali, o della nostra famiglia, per raggiungere sicurezza e serenità. E riesce a convincerci perché al centro della nostra percezione di benessere ci sono i beni.

Ci sembra non ci sia alternativa, se non utopicamente.

Eppure ci sono culture che praticano interessanti alternative. E ci riescono perché al centro della loro percezione di benessere ci sono le persone.

Rimango sempre esterrefatta quando mi accorgo di come la paura di perdere sia sempre presente nel modo in cui viviamo la nostra economia. Non importa quanto denaro si abbia: chiunque tende ad essere più o meno ossessionato dalla possibilità di perdere, dal dover avere qualcosa da parte, dover accumulare. Si tratta solo di cifre diverse, ma sempre siamo orientati al “di più”. La condivisione è un concetto che ci appare del tutto estraneo alla sicurezza e al benessere.

La nostra educazione economica occulta un’importante verità: la ricchezza, prima di essere materiale, è uno stato interiore: quanto siamo ricchi in pratica, dipende da quanto ci sentiamo ricchi. Ci sono persone che hanno montagne di soldi e beni, ma vivono da miseri, nella paura e nell’affanno di non dover perdere.

Se ci sentiamo ricchi, anche la ricchezza prettamente materiale diviene espressione di prosperità, abbondanza, oserei dire di gloria divina.

Se mi sento ricca, posso aiutare sempre gli altri, indipendentemente dalla quantità di beni o di soldi che ho. Solo se mi sento ricca, posso godermi pienamente quello che ho, perché godere ha a che fare col lasciarsi andare, sentirmi sicura, avere fiducia. Se mi sento povera, vivrò miseramente, risparmiando anche i sentimenti, lesinando la generosità, anche verso me stessa, indipendentemente dalla quantità di beni o di soldi che ho.

Se mi sento ricca, ho le forze e l’entusiasmo per dedicarmi alle mie passioni, per contribuire a fare star bene gli altri, e desidero che il benessere si propaghi.

Se non mi sento ricca, sento di non avere abbastanza spazio per esistere nel mondo, mi sento violata, invasa da chiunque, sento di dover erigere difese, di dover combattere e conquistare, di dover vincere qualcuno per poterci essere io. Se non mi sento ricca, la mia ricchezza prettamente materiale diventa miseria, vincolo, separazione, confine, diffidenza, difesa, corazza, odio, prigione, schiavitù, mortificazione della vitalità.

Sentirsi ricchi significa, in poche parole, sentire di poter dare senza limiti, e sentire di poter ricevere senza limiti.

Sentirsi ricchi ha a che fare con due sentimenti immensi e grandiosi: la gratitudine e la generosità.

La gratitudine consente di ricevere liberamente, la generosità consente di dare liberamente.

Ciò che coltiva questi due sentimenti di ricchezza, è il dono.

Siamo alla cassa di un negozio e diamo i soldi per pagare quanto stiamo acquistando. Non occorre provare gratitudine, perché ricevere ci è dovuto in virtù del prezzo imposto: l’obbligo di pagare una cifra che non posso discutere, genera l’obbligo conseguente di ricevere. Quasi non ci accorgiamo della persona alla quale paghiamo, e in genere invece di guardare lei, controlliamo il resto.

Cosa accadrebbe se inaspettatamente, la persona alla cassa ci dicesse: “Questo è un mio regalo personale per lei, la prego di accettarlo”?

Un dono richiede prima di tutto di essere accettato, cioè di aprirsi a ricevere. E ricevere non è un obbligo, è una libera scelta. Quasi certamente, guarderemmo questa persona negli occhi, riconoscendone il valore umano. Accettare un dono significa onorare la persona che ce lo porge. Ma anche fare un dono, significa onorare la persona a cui lo offriamo: quindi ci sarebbero due persone che si danno vicendevolmente valore.

Guarderemmo questa persona con gratitudine. Dal ricevere con gratitudine nascerebbe spontaneo il desiderio di ricambiare.

Ricambiare è un atto di libera scelta, originato dall’interno di noi, non imposto dall’esterno.

L’impulso spontaneo a ricambiare, irrorato di gratitudine, apre alla generosità.

La bellezza incredibile della gratitudine è che è un sentimento che non si declina in uno spazio o in un tempo, proprio come l’amore: si può essere grati ad una persona per tutta la vita, e nutrire sentimenti di benevolenza verso di lei costantemente. Poter serbare e diffondere sentimenti di questo tipo, non è forse una grandissima ricchezza?

Acquistare un bene ci focalizza sul valore relativo di un oggetto materiale e caduco; riceverlo in dono ci focalizza sul valore assoluto e imperituro della vita, onorata dal gesto di una persona vivente verso di noi. Cambiano le priorità, cambia la percezione. La prospettiva dell’avere è completamente diversa: è illuminata dall’essere. C’è più vita, c’è più benessere, c’è più energia. Vivere con il cuore colmo di vita, sentirsi traboccare di riconoscenza verso gli altri, sentirsi invasi dalla bellezza dell’universo e sentirsi infiniti, tanto da poter esprimere tutta la bellezza che è dentro di noi, non è forse una grandissima ricchezza?

Sentirsi pieni di energia, tanto da riuscire a fare tutto quello che desideriamo, non è forse una grandissima ricchezza?

Sentirsi in connessione con gli altri, non sentirsi mai soli, non è forse una grandissima ricchezza?

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Nell’economia del dono, dare e ricevere si liberano dal giogo dell’obbligo, e si fondono in un unico movimento, che è insito della natura dell’universo, e quindi anche nella natura umana. Dare e ricevere riconquistano libertà, fluidità, attraverso la quale le persone possono esprimersi pienamente, lasciandovi scorrere se stessi.

Nell’economia del dono, si riceve in dono ciò di cui si ha bisogno. Il dono è fatto con generosità, e con la consapevolezza che donando, genero ricchezza. Il dono viene accettato, con riconoscenza e con apertura al goderne: in alcune culture avviene con un rito che ne celebra tutta la bellezza. Ricambiare avviene con generosità e benevolenza, in base al valore di quanto ricevuto e in base a quanto si sente di poter dare. Si può ricambiare senza limiti di tempo e spazio, quando e come si sente di poterlo fare.

Certo, può volerci tempo per guarire dalla squallida scarsità di sentimenti a cui siamo stati educati, e dall’egoismo che ne scaturisce. L’economia del dono ci guida a disimparare il paradigma della miseria e a vivere la ricchezza.

Lo spettro della crisi, dipinto a larghe pennellate da un’informazione accanitamente dettagliata, il terrorismo dell’insicurezza economica, del tutto simile al monito medievale ricordati che devi morire, ci abbattono, ci scoraggiano, ci tolgono vitalità e luce, ci convincono che siamo poco e poco possiamo, ci identificano nella miseria. Così smettiamo di aiutarci, di avere cura degli altri: smettiamo di dare e, dunque, di ricevere. E la miseria, da stato di coscienza si tramuta in realtà concreta.

Penso sia possibile uscire da questo circolo vizioso, rinunciando ad obbedire alle sue leggi economiche, ignorandolo, non prendendolo sul serio, smettendo di arrapinarsi per conquistare un ideale benessere che si allontana inesorabilmente.

L’economia del dono non è utopia, perché esiste già. Esiste ogni volta che una persona sblocca il proprio dare-ricevere, lo libera dalla paura e dalla subdola sensazione di miseria, e lo eleva ad espressione della propria ricchezza umana.

Esiste come legge fondamentale della natura, che offre con infinita grazia le sue risorse ai bisogni della vita.

Esiste come legge fondamentale della vita, generata nel dono.

A Disimparando s’impara, la via del disapprendimento che offriamo come territorio di crescita per chi vuole accogliere la sfida di trasformarsi al di fuori degli schemi culturali e sociali, iniziamo con un piccolo passo decisivo. A partire dall’edizione del 2018, Disimparando avviene nell’economia del dono.

È tempo per noi di Disimparando, di smettere di sederci a discutere di cambiamenti, e cambiare davvero.

Auguro a tutti noi di scoprire che la ricchezza, ancor prima di avere, è una qualità dell’essere. Invalicabile.

Siamo ricchi, perché siamo umani.

Come diventare ricchi senza lavorare

Una possibile via di liberazione attraverso il rapporto col denaro

di Igor Niego

Forse a qualcuno potrà sembrare strano considerare proprio la gestione del denaro come una pratica spirituale; qualcosa, quindi, attraverso cui evolvere la propria interiorità.

A differenza di quelli che considerano la mancanza di soldi il motivo per cui non riescono a realizzare ciò che vorrebbero nella vita, per altri il denaro può essere invece un fedele angelo custode. Io potrei mettermi in questa categoria insieme a tutti quelli che, sebbene non abbiano rendite, il denaro non tiene in ostaggio chiedendo un tributo del proprio tempo troppo alto. Cosa è accaduto nelle vite delle persone che si sono sentite sempre generosamente protette e sostenute dal denaro pur non provenendo da famiglie danarose? Quelle persone a cui i soldi sono arrivati sempre nei momenti giusti, non appena stavano per finire? Solo fortuna? Incidentalità o sincronismo? Ho fatto esperienza del fatto che queste persone esistono e non sono così poche, e più riuscivo a vivere questa dimensione del denaro, più tendevo ad incontrarle per ispirarmi a loro e scoprire come fare a non rinunciare a niente di veramente importante nella vita, pur non disponendo di grandi cifre per realizzare i miei progetti. Sicuramente questo tipo di persone sono una minoranza rispetto alla media che sente la propria vita stretta nella morsa del denaro, ma forse il problema è che veramente ancora poche persone si concedono di concepirsi – prima di tutto interiormente – qualcosa di diverso dalla media. Così, continuando a limitare fortemente le possibilità che offrono i propri sogni, limitano l’aspirazione alla bellezza del vivere, aspirando più che altro al denaro, pensando che da esso scaturisca la bellezza. Io credo che sia più vero il contrario, che solo attuando tutta la bellezza della vita possa scaturire una concreta economia della felicità. Siamo nati e cresciuti nella dicotomia tra etica e denaro e questo ci blocca, perché il modello dominante ci ha insegnato che saperci fare col denaro significa interessarci molto di più all’utile raggiunto che a ciò che abbiamo vissuto durante il percorso che ci ha portato al risultato. Sono nato e cresciuto nell’idea che per guadagnare denaro dovessi essere disposto a rinunciare alle cose per cui provo piacere. Rinunciare all’essere in nome del fare.

L’invenzione del denaro ha avuto una sua evidente praticità nell’economia ma fin dall’inizio è stata contaminata da tutte le psicosi umane. Il denaro, privato subito del suo valore sacro, è diventato il simbolo della brama materiale, e questo è stata la sua condanna, e quindi anche la nostra.

Credo che il denaro sia un’entità che ha bisogno di essere onorata e lasciata libera da sentimenti di ansia, cupidigia, paure e sensi di colpa. Così il denaro potrà essere celebrato, per guarire e guarirci, potrà realizzare destini per l’umanità diversi da quelli a cui finora è stato relegato. La presenza di molto denaro è una particolare manifestazione dell’abbondanza, ma non l’unica, anzi spesso è solo una sua degenerazione. In realtà abbondanza e ricchezza sono un’attitudine dell’animo umano che può scaturire solo dal cuore e non è quantificabile in cifre. Piccole cifre di denaro possono portare grande felicità, prosperità e soddisfazione; per gli accumulatori seriali di denaro invece, grandi capitali non sono mai abbastanza. Se l’abbondanza non viene dal cuore allora si chiamerà avidità o attaccamento al denaro, che corrisponde alla miseria interiore.

L’abbondanza interiore è la facoltà di moltiplicare il valore di ciò che si ha a disposizione (valorizzare), senza concentrarsi su ciò che manca, ma godendosi al massimo ciò che c’è. Questo è il significato simbolico più importante del miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Potremmo così formulare la legge dell’abbondanza: “se tutti condividono ciò che hanno, tutti hanno di più” anziché “più tolgo agli altri e più ho per me”.

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Secondo una visione subdolamente “penitente” – molto più diffusa di quanto riusciamo ad accorgerci – la sopportazione della “sventura” di non avere molti beni materiali, è la “virtù del sacrificio” con cui il sistema economico dominante coltiva in noi frustrazione e schiavitù. Su questa frustrazione di massa si fonda il grande successo dell’industria pubblicitaria. In tempo di crisi economica il modello consumistico non viene messo in discussione più di tanto ma svolge ancor di più la sua funzione consolatoria. Basti pensare che, ad esempio, in tempo di crisi slot-machine, lotterie e scommesse aumentano i loro incassi (gli ultimi dati concessi parlano di introiti dal “gioco lecito” pari a 96 miliardi di euro all’anno solo in Italia).

Nell’era consumistica trasformare la cosiddetta crisi economica in regale povertà è il lavoro interiore più nobile, che passa attraverso la sovranità del proprio tempo, da sostituire alle varie forme di cattività che sono gli impieghi da lavoratore dipendente o da libero professionista. Anche la libera professione infatti, così com’è comunemente intesa, può essere considerata comunque una prigione in cui al carcerato viene data la chiave della cella. Evadere da questo meccanismo che rende sempre più clandestina una genuina ed etica attività di sussistenza ci richiede una capacità di reinventarsi che è la più grande opportunità della nostra brevissima vita.

Sono sempre di più le persone che hanno deciso di non esercitare un gran controllo sui propri flussi di denaro; piuttosto, con tanta gratitudine, si affidano ad esso e sentono di ricevere sempre molto. Tra questi ci sono professionisti che lasciano ottime carriere e grandi guadagni in nome di un diverso tipo di sicurezza più legata alla ricerca di se stessi. Vivere l’abbondanza in tempo di crisi vuol dire liberarsi di molti dei bisogni compensatori che il sistema economico dominante vuole farci credere che siano bisogni primari. L’attitudine alla condivisione è in realtà ciò che ci permette di disporre e usufruire di molti più beni di quanto il sistema economico basato sulla proprietà privata ci conceda. Per esempio solo iniziando a viaggiare nel mondo ho potuto scoprire quante siano le persone che hanno lasciato molte o addirittura tutte le sicurezze economiche per affidarsi alle proprie capacità di creare un’economia di sostentamento, muovendosi nel mondo anche per decine di anni e anche con tutta la famiglia, bimbi di ogni età al seguito.

Ad esempio ho percorso un pezzo del mio viaggio con una famiglia che ha sperimentato una particolare forma di nomadismo: in 2 anni di viaggio in Italia e in Asia, liberandosi di una casa propria con tutte le spese che una casa comporta, ha goduto, come ospite, di oltre 200 case diverse. Ditemi questa se non è ricchezza! Era una famiglia tutt’altro che indigente e disagiata, come molti potrebbero pensare. L’esperienza di conoscere a fondo questa famiglia mi ha insegnato che avere tempo per investire energie nelle relazioni umane può produrre molto più benessere che lavorare per guadagnare soldi. Soldi per pagarsi una casa che poi finisce per essere solo un dormitorio perché rimane molto spesso vuota 8/9 ore al giorno, ore impiegate per fare un lavoro che la maggior parte delle volte non piace a chi lo fa. Ma non è così normale fare un lavoro che non piace!

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Tutti nascono senza alcuna separazione da tutti i beni del mondo, ma in questo sistema economico, così scarso di spirito del dono e della condivisione, tutti imparano ad appropriarsi del denaro in modo competitivo, senza sapere che così facendo in realtà si stanno privando del vero benessere, trovandosi umanamente isolati, con l’unica compagnia dei propri soldi, pochi o molti che siano a questo punto non ha più importanza.

L’abbondanza è un’energia pulita, sacra, divina, creatrice e creativa, quindi non è mai la persona ad avere bisogno di soldi ma è l’abbondanza stessa che è naturalmente attratta da lei per riprodursi come si riproduce e si rigenera una foresta. L’universo non deve pagare la bollette a nessuno per la fornitura dell’energia. L’energia è intrinseca nella materia, così come la ricchezza tra gli uomini; basterebbe lasciare che si propaghi. Trattenere le risorse per commerciarle diffonde invece scarsità. Non c’è nessuna crisi, le ricchezze ci sono sempre solo che non arrivano alla gente.

Basta osservare la fioritura in primavera o un cielo stellato per comprendere quanto la natura sia tutt’altro che avara: trova il modo di rigenerare se stessa in maniera tale che il minimo impiego di energia realizzi illimitata prosperità. Una foresta si riproduce da sola, gratuitamente, così come potrebbe proliferare intorno a noi la ricchezza, ma ci vuole un approccio sereno e fiducioso verso l’economia del dono che è l’alternativa alla logica di scambio dell’economia mercantile nata parallelamente al patriarcato. Se c’è disponibilità di ospitare nella propria vita la prosperità, allora i soldi arriveranno sempre nella misura in cui servono, né un centesimo in più, né un centesimo in meno. L’importante è non identificare la quantità di denaro, e il potere che generalmente gli viene attribuito, con il successo o il fallimento di sé. Per far sì di non temere la mancanza di denaro è bello fare l’esperienza di vivere con meno soldi possibile, così come può essere utile fare esperienza di far passare tanti soldi per le proprie mani, ma con l’abilità di deviare dai percorsi obbligati in cui facciamo ricadere il denaro. I soldi non hanno alcuna valenza morale di per sé, assumono la valenza che viene trasmessa loro dalle mani di chi li muove in quel momento. Il denaro non è immorale, è amorale. Usando espressioni come il vil denaro o lo sterco del diavolo, continuiamo ad attribuire al denaro le peggiori caratteristiche dell’animo umano, e impediamo ai soldi di liberarsi di un significato con cui lo abbiamo troppo caratterizzato. Potremmo incominciare a parlare di denaro con un sentimento più tenero ed affettuoso.

E se invece pensassimo che il denaro non lo si può guadagnare, ma solo adottarlo per metterlo in rete, per immetterlo in un circuito di economia solidale? Che il denaro si può pulire pulendo il rapporto che si ha con esso? Che il denaro può essere trattato in modo giocoso e divergente come fa l’originaria innocenza dei bambini? Dimenticando l’aspetto giocoso della vita il denaro si prende gioco di noi, ci userà, e ci strumentalizzeranno tutte le persone che usano il denaro per dominare. Se liberiamo il denaro dal senso del dovere non dovremmo più pensare a come guadagnarlo, piuttosto penseremo a come attivarlo in maniera creativa per generare felicità. Il denaro si purifica cominciando dal fare sempre più attività di cui si prova desiderio e passione. Si purifica anche smettendo di usarlo come alibi per non cambiare il proprio stile di vita se si è insoddisfatti.

A livello individuale è solo il non sentirsi degni che respinge l’abbondanza. Andare a scoprire cosa c’è di nascosto dietro questa svalutazione di sé che porta scarsità materiale è un lavoro sulla conoscenza di sé, inizialmente molto scomodo perché ci mette in contatto con i nostri dolori rimossi, ma poi ci porta a guarire tutte quelle ferite emotive che ci tengono nella miseria.

E se ci liberassimo definitivamente da questa illusione di sicurezza materiale con cui il sistema economico vuole illuderci? Il lavoro finirà di pari passo al rapido sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Una rete solidale di relazioni umane è l’assicurazione o la pensione più alta in cui possiamo investire. Io, come altri, ho inventato molte attività economiche che scaturivano direttamente dalle mie passioni, ed ho osato investire in progetti che non sapevo come sarebbero andati, perché nessuno prima aveva fatto qualcosa di simile. E se sempre più persone smettessero di andare in giro a cercare qualcuno che gli concedesse un impiego a patto di presentare titoli di studio, certificazioni o attestati? E se si incominciasse a dare più valore a ciò che uno veramente sa fare e ha fatto, visto che la burocrazia non ci riesce? E se smettessimo tutti di rinchiuderci in un lavoro fisso che non ci permetta di viaggiare per conoscere il mondo? E se ci guardassimo bene da questa strana consuetudine di lavorare 8 ore al giorno separandoci dalle infanzie sempre più precocemente istituzionalizzate dei nostri figli? E se non dovessimo più aspettare la concessione delle ferie per assaporare la vita? E se diventassimo tutti scollocati volontari per rompere ogni identificazione con il ruolo lavorativo in cui la mentalità dominante vorrebbe incasellarci? Non perdiamo l’occasione che ci offre la nostra vita di veicolare senza un secondo fine e attraverso il nostro esempio un messaggio evolutivo per l’animo umano. Anziché investire tanto nella pubblicità commerciale per i servizi professionali che offriamo, occupiamoci di divulgare attraverso il nostro operato i valori della vita che troviamo più urgenti; saranno coloro che diventeranno i nostri cosiddetti “clienti” a proporci delle forme di scambio sostenibili che consentano loro di usufruire della nostra arte di saper fare ciò che davvero ci ispira per entusiasmarci della vita. Non starete mica pensando che chi ci è riuscito sia un essere superiore agli altri o che sia casualmente più fortunato degli altri? Sono sicuro che chi vuole può cambiare, può sentire meno utopici i propri sogni nel cassetto, non ha scusa esterna a se stesso: può avere tempo e risorse per diventare strumento di prolificazione dell’abbondanza senza più lavorare, ma finalmente vivendo a pieno la semplicità della propria vita prendendosi cura di ciò che più ama fare. E così liberando sé, si incomincia a liberare il mondo, al punto che forse, un giorno, l’uso della moneta non dovrà per forza far parte di così tanti aspetti della nostra vita o, addirittura, si estinguerà del tutto.