ognuno di voi, quando decide di varcare la soglia della scuola, si trova di fronte a un bivio: o fare una fine kafkiana, diventando un ingranaggio di un macchinario schiacciante e impersonale, o diventare un osservatore dell’ingranaggio, prenderne un po’ le distanze, per immaginare in quali altri modi potrebbe funzionare; risvegliare dentro di sé un impulso all’invenzione, finalizzato prima di tutto a salvarsi la pelle, e di conseguenza a trovare il modo di accompagnare i bambini alla prosperità e al benessere interiore.
Sì! Salvare la vostra vita psichicamente intendo, salvarla soprattutto dalla noia e da quell’agonia dell’entusiasmo che aleggia come uno spettro tra le cattedre, le lavagne, le lim, i registri, i ricorsi e le denunce dei genitori, i grembiuli, le valutazioni e i programmi ministeriali.
Io ho frequentato, professionalmente parlando, tutti i tipi e gli ordini di scuola, ma sono stato più a contatto con il mondo della scuola primaria.
Ho visto che nel lavoro dell’insegnante esiste un’opportunità enorme per reinventare se stessi e trasformare il proprio impiego in un’arte poliedrica e multiforme. Ciò che fa la differenza è quanto ognuno di voi riesca a realizzare un radicale cambio di prospettiva rispetto alla relazione tra adulti e bambini.
La “scomoda verità” è che la relazione con i bambini, per un adulto, può essere nutriente, e che i bambini in realtà hanno da dare al mondo più di quanto hanno bisogno di ricevere.
Da questa così impegnativa assunzione di responsabilità dipende se la scuola è un luogo dove si coltiva disagio in tutti coloro che vi entrano, oppure un infinito laboratorio d’umanità grazie al quale si può avere accesso al più ricco patrimonio umano di cui il pianeta dispone, ovvero l’infanzia. La scuola diventa quindi una specie di lama a doppio taglio, non benefica o nociva di per sé, ma a seconda delle persone che la vivono.
Nella mia professione di esperto e formatore ho lavorato con molti insegnanti; tra essi, in risposta a discorsi di questo tipo, molti mi direbbero: “Sì, ok, belle parole, sono d’accordo in teoria, ma applicare questi bei principi nella pratica scolastica è impossibile. I bei metodi all’avanguardia che si studiano alla facoltà di scienze della formazione sono irrealizzabili”.
Così moltissimi insegnanti chiedono istruzioni su pratiche immediate, attività da svolgere; vorrebbero applicare un manuale preconfezionato, una sorta di “Bignami del perfetto insegnante”, un libro di ricette istantanee con tempi, procedimenti e quantità. Altri invece sono maggiormente disponibili a mettersi in gioco in un percorso più duraturo, dove il destrutturarsi comporti un lavoro su di sé, dal gusto più forte e deciso. Un processo maieutico che aiuti a scorgere dentro se stessi delle possibili risposte alla crisi che la scuola sta attraversando.
Un percorso di questo tipo comporta tanti cambiamenti; anche solo, semplicemente, la volontà di prendere dimestichezza con linguaggi espressivi a cui magari non vi siete mai avvicinati: danza, teatro, musica, arte, poesia, circo, comicità, meditazione, artigianato, narrazione e tutte le forme di cura alla persona che a questi linguaggi sono legati. È impressa nel profondo di ognuno di noi ed in modo molto pervasivo l’idea che questi apprendimenti non siano veramente di competenza scolastica, o che le materie più “artistiche” contino meno.
Diceva Gail Godwin: “Un buon insegnamento è fatto per un quarto di preparazione e per tre quarti di teatro”: è importante che voi abbiate un approccio trasversale, che sappia spaziare cioè nelle varie dimensioni dell’esistenza. L’attenzione dei bambini non chiede altro che essere agganciata da prodezze del cuore, del corpo, dei sensi e delle emozioni e questo può essere emanato dalla vostra persona solo fondendo le discipline e le materie, stupendo e stupendovi, usando voi per primi canali espressivi e creativi.
Con una rivoluzione silenziosa, in modo un po’ piratesco, infilare un po’ di magia sotto banco, come se foste contrabbandieri di amore, in quei pochi interstizi di libertà che sono rimasti tra un obbligo ed un altro.
A lungo andare questi obblighi e restrizioni sono diventati comunque inefficaci, tanto da sgretolare gran parte della vostra autorevolezza di fronte ad alunni e genitori. Certo, c’è un codice di comportamento che il vostro ruolo di insegnanti vi impone perché siete all’interno di un’istituzione fortemente strutturata; ma è possibile stabilire con i bambini e i ragazzi una complicità segreta, intima, sottile, che sappia, se occorre, andare anche oltre le convezioni sociali. I bambini si appassionano allo studio perché si appassionano a voi, ma questo non sarà possibile se voi stessi non vi appassionerete prima a loro.
Non tradite mai questa complicità, fate in modo che assomigli sempre più ad una forma d’amore incondizionato; qualsiasi sia il “problema” che lo “studente” vi crea, cercate sempre insieme a lui strategie per eludere lo schematismo delle ormai inefficaci consuetudini scolastiche che incatenano la scuola, imprigionandola dentro se stessa. Gli insegnanti speciali, quelli che lasciano un segno, (ovvero in-segnano) sono spesso coloro che hanno vissuto esperienze piene di carica umana anche fuori dalla scuola, e che le hanno sapute portare dentro, che hanno arricchito la propria vita di bellezza e gioia, stimolando se stessi, prima che i propri alunni, con avventure culturali e umane.
È difficile concepire un nuovo atteggiamento, quando il vostro sistema psicologico ha ricevuto un certo imprinting. La scuola, come impianto fatto di riforme limitanti, di regolamenti insensati, di paure, va ad inibire proprio gli slanci più vitali che potrebbero rinnovarla.
Sopravvivere a tutto ciò significa trovarsi nuovi riferimenti, maestri sconosciuti o dimenticati, tornare bambini, mettere in discussione le apparenti aree di comfort in cui vi viene chiesto di adattarvi. Non è mai troppo tardi per riprendere a desiderare. Non è mai troppo tardi per cogliere le opportunità. Non aspettate di ammalarvi seriamente per mandare tutto all’aria, fatelo ORA!
Il vostro sguardo può tornare a cogliere le possibilità e non solo le difficoltà.
Per battere nuove piste ci vuole quell’ardore di trasgredire il grigio. Abbiate la forza di nuotare contro la corrente della burocrazia e a favore del fantasioso flusso del l’immaginazione infantile, lasciatevi ispirare soprattutto da esso.
Siamo in un’epoca cruciale, in cui per fortuna esiste un’ottima formazione anche in percorsi non accreditati, che non godono quindi di riconoscimenti dal mondo accademico. Ecco, la vera formazione la dovete trovare da soli. La notizia meravigliosa è che il panorama di offerte formative per la crescita personale, anche in Italia, è davvero formidabile.
I percorsi formativi che possono maggiormente giovare sono quelli che guardano oltre quel piccolo, restrittivo orizzontucolo all’interno del quale il meccanismo vorrebbe rinchiudervi, portandovi ad un appassimento interiore fatto di ripetizione quotidiana delle stesse procedure, degli stessi gesti, delle stesse frasi, delle prassi, dei protocolli, in attesa che la fine di tutto ciò arrivi da chissà dove, in attesa del pensionamento.
Investire nella formazione è una strada concreta per trasformare il vostro lavoro in qualcosa di più piacevole, per uscire dall’ottica del “sopravvivere”, dello stress come conditio sine qua non del vostro lavoro. E quando parlo di investire in formazione, non parlo esclusivamente di formazione in questioni di didattica, ma parlo magari di viaggi in culture lontane, parlo di espandere la vostra capacità relazionale, affettiva, emotiva ed empatica. Perché tutto ciò che vi serve per essere insegnanti più felici, è in realtà ciò che serve per essere persone più felici.
Occorre ampliare le vostre aspirazioni oltre i confini delle sbarre del cancello di scuola.
Non a caso, in alcuni paesi, perché gli insegnanti siano nel pieno delle proprie forze, possono prendere un anno sabbatico per ogni cinque di insegnamento; questo è ciò che occorre, come occorre che nella vita gli insegnanti abbiano più tempo libero per coltivare se stessi.
Quando non è così, allora resta o da fare di necessità virtù, o da vincere il terrore di cambiare, una volta ottenuto l’agognato “posto fisso”.
Quello dell’insegnante è uno dei lavori che maggiormente tende a cristallizzare quel tipo di diligenza attraverso cui la scuola costruisce l’obbedienza sociale. Un’obbedienza che tende a produrre immobilità anche dentro i vostri sentimenti.
Non sentitevi bisognosi di un “posto di lavoro”: lasciate che sia la scuola ad aver bisogno di voi, fate valere i vostri diritti, e forse scoprirete che avete più bisogno di uno “scollocamento creativo”, di “libertà di movimento”, di “sentieri irti e scoscesi”. Aiutate i bambini più iperattivi a trovare un loro posto in mezzo agli altri ma, vi prego, non spegnete quegli ultimi bagliori che saettano dai loro occhi. Se occorresse ridisegnare la mission dell’insegnante odierno allora consentitemi di suggerirvene una: custodire quella meravigliosa “selvaticità di pensiero” che i bambini incarnano con estrema maestria e naturalezza.
Igor Niego
Bellissimaaaaa!!!! 😉😉😉
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#Educazione
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