«La vita è un grande mistero e una meravigliosa avventura, penso che la cosa più bella della vita sia sentirsi vivi, vivendola».
Sentirsi vivi vuol dire tantissime cose, indiscutibilmente soggettive, ma volendo andare all’essenza della questione, penso che essere vivi abbia a che fare con l’essere presenti, attivi, luminosi, esprimendo la voglia e la gioia di vivere insiti nella biologia del corpo, nella salute, nella disposizione d’animo aperta e curiosa. Se dovessi rappresentare la vitalità umana con un’immagine, di certo disegnerei un bambino. Cioè un essere vivente sempre pronto alla vita, curioso, dinamico, attento a cogliere, mai stanco, aperto di vedute.
Il bambino del mio disegno però non può avere qualsiasi età. Perché, se osserviamo attentamente il mondo dell’educazione, sarà evidente che il bambino può rimanere vitale solo se e fino a quando gli adulti che si occupano di lui glielo consentono.
I bambini che possono crescere liberi, possono essere creature viventi vitali, cioè vivi nella vita. Esseri palpitanti, luminosi, accesi, interessati, non spenti, fiacchi, indolenti o affaticati. E questo non è un concetto che prendo a prestito da qualche libro di pedagogia: lo raccolgo dall’esperienza di genitore e insegnante, e anche di figlia, avendo avuto un padre cresciuto libero nelle aperte campagne del sud, il quale, grazie a questa formazione a cura di madre natura, è cresciuto come uomo vivace ed energico, propulsivo.
SONO VIVO, DUNQUE PENSO LIBERAMENTE!
Una delle caratteristiche della vitalità -sulla quale vorrei soffermarmi in questo scritto- è, a mio avviso, la predisposizione costante e scattante, a trovare svariate soluzioni ad un problema.
Questa capacità è stata denominata pensiero divergente.
Il pensiero divergente, o laterale, consiste nell’abilità di lasciare correre libero il nostro pensiero a cercare dati non catalogati, idee inedite, in tutte le direzioni, non solo quelle lineari dei rapporti causa-effetto. Si tratta, in altre parole, di un pilastro essenziale della creatività
Che la creatività abbia a che fare con la libertà di pensiero, è tanto evidente quanto sottovalutato o del tutto ignorato nel nostro sistema educativo. E poiché il corpo e la mente non sono divisi da un filo spinato dentro di noi, e l’essere umano è un meraviglioso capolavoro in cui il materiale e l’immateriale si uniscono come in una sinfonia, dovrebbe essere altrettanto evidente che la libertà di pensiero coincide con la libertà di movimento fisico, di azione, di parola.
Il pensiero divergente è definito come la capacità di trovare molteplici risposte ad una medesima domanda.
George Land e Beth Jarman, nel libro “Break point and beyond” presentano un test fatto su 1500 persone per verificare la capacità di pensiero divergente dell’essere umano. In questo test viene chiesto di elencare quante cose si possono fare con una graffetta, un fermaglio per tenere i fogli.
I bambini al di sotto dei 5 anni riescono a trovare anche più di 100 modi per usare una graffetta. Ma già a 10 anni, i bambini tendono a trovare 10, al massimo 15 modi di utilizzo.
Il nostro sistema scolastico infatti impartisce la conoscenza forzando l’apprendimento di dati attraverso la costruzione di percorsi di pensiero lineari e standardizzati.
Un bambino che non ha ancora imparato a costringere il pensiero su binari ritenuti giusti e dunque imposti dalla scuola, ha la libertà mentale di trovare come impiegare la graffetta attingendo anche a idee inedite, non convenzionali… ciò che chiamiamo fantasia e immaginazione. Ma quando l’apprendimento subisce la standardizzazione a modelli e tempi uguali per tutti, ecco che il pensiero inizia un processo di fossilizzazione, dovuto all’esercizio di immobilità mentale e alla quasi totale assenza di movimento libero, laterale.
In altre parole, a scuola impariamo che ad una domanda si risponde solo in un modo, e che quella risposta è scritta in una certa pagina del nostro libro. Basta ricordare quella, e saperla dire, e ottengo un bel voto, garanzia del fatto che ho imparato e sono pronto e capace per affrontare la vita!
E’ chiaro che nel nostro percorso educativo e scolastico, durante il quale dovremmo crescere e acquisire, perdiamo invece gradualmente qualcosa di essenziale e prezioso, che è collegato alla vitalità. Spesso se ne esce limitati, invece che arricchiti.
COME IMPARIAMO A SCUOLA?
Il problema non è solo cosa impariamo ma come lo impariamo.
Il nostro sistema educativo e scolastico trasmette nozioni e modelli di comportamento unitamente ad un univoco modo di apprenderli. Il sistema di valutazione e la strategia di premi e punizioni, non fanno che rendere ancora più unilaterale l’apprendimento. Sei valutato positivamente e quindi sei “giusto” o “bravo” solo se sei in un certo modo: tutti gli altri modi di essere o pensare o agire, sono sbagliati o gravemente insufficienti. Si finisce così per confondere l’apprendimento con l’obbedienza, il rispetto con la paura, l’interesse con l’ambizione, la sicurezza interiore con la rigidità, la fermezza con la costrizione, la prontezza mentale con la ripetizione, l’abilità con l’omologazione, la conoscenza con il ritenere a memoria, e l’intelligenza con il buon utilizzo pratico di quanto memorizzato.
Ma c’è di più. Il cosa e il come impariamo da bambini, condiziona inoltre la capacità di concepire come relativo e non assoluto il contenitore culturale e storico della nostra mente, e dunque la capacità di trascenderlo e considerare a pari di dignità altre culture e visioni del mondo.
Il nostro sistema scolastico è ancora impostato sul primato della nostra cultura, religione, economia: un’impostazione subdola, perché non dichiarata, e che passa per conoscenza vera quella che di fatto è un’interpretazione della realtà generata dalla prospettiva soggettiva di una singola cultura sociale, politica, economica e religiosa, e della sua storia.
Il risultato reale di un tale sistema di scuola ed educazione, è che ci si abitua ad imparare sempre di meno, poiché la disponibilità ad imparare è un’apertura a 360 gradi che viene ingabbiata, avvilita e spenta quando ci si convince che ad una domanda esista una sola risposta.
Ciò che si perde è la capacità di mettersi in discussione e in crisi, e di trasformarsi.
Una strada efficace per recuperare vitalità divergente, consiste, a mio avviso, nel disimparare i binari univoci instillati nella nostra infanzia che ci inducono a possedere conoscenze rigide, schemi di pensiero e comportamento, e quindi convinzioni, unilaterali, cristallizzate, incapaci di concepire o accogliere il nuovo.
COSA VUOL DIRE DISIMPARARE
In generale si tende a pensare che l’apprendimento consista in un’assimilazione di dati e conoscenze: più cose so e più ho imparato.
In realtà l’apprendimento sarebbe un processo molto più profondo, che ha a che fare con la trasformazione del nostro assetto neuronale e della nostra interiorità.
Ogni volta che impariamo davvero una cosa nuova, questa manda in crisi tutto il nostro assetto interiore, rivoluzionandolo. Ciò corrisponde ad una crescita, ad un cambiamento profondo della persona. Corrisponde alla scoperta di nuove potenzialità e alla loro conseguente fioritura e sviluppo.
Proprio qui sta il difetto del metodo unilaterale e lineare di apprendimento usato dal nostro sistema educativo: ci spinge ad assimilare più che a trasformarci, cioè ad apprendere in modalità “risparmio”: ci induce ad archiviare le nozioni nelle nostre banche dati interne già esistenti, catalogando i dati, anche se nuovi, assimilandoli a quelli vecchi. In tal modo si mantiene inalterato lo status quo interno, fissando un comfort interiore che di solito definiamo benessere… dimenticando che ciò che si fissa e si ferma, somiglia di più alla morte che alla vita.
Possiamo imparare quantità immense di nozioni, senza che questo corrisponda ad una reale trasformazione e crescita interiore.
Perciò, il concetto di disapprendimento vuole essere prima di tutto una provocazione al nostro stile di vita attuale: oggi pensiamo che più si impara e più si diventa capaci e adatti ad affrontare le sfide del lavoro e dei tempi, focalizzando l’attenzione su una necessità quantitativa di nozioni. Basti guardare quanto si sono riempiti di contenuti i programmi scolastici negli ultimi 20 anni.
Invece il focus è il modo in cui si impara: se non si cambia quello, imparare non ci tocca intimamente, rimane un processo estraneo e distante che non produce alcun cambiamento e contribuisce invece a mantenere inalterato il mondo dentro e fuori di noi.
Disapprendimento è il procedimento inverso dell’apprendimento: dis-acquisire invece che acquisire, rigurgitare anziché assimilare, perdere anziché conquistare.
Disimparare quindi significa destrutturarsi, smantellare, smuovere la fissità che ci condiziona, ci limita, ci cristallizza e ci toglie vitalità.
Disimparare, ancor più semplicemente, è un diversamente imparare, ossia apprendere in modo diverso, divergente.
Penso che disimparare, oggi, nel nostro contesto culturale e storico, sia un passo fondamentale per chi vuole onestamente crescere e realizzare le potenzialità immense connaturate alla vita umana. Per chi vuole vivere da vivo.
COME SI PUO’ DISIMPARARE?
Disporsi a disimparare vuol dire prima di tutto permettere che ciò che è diverso da noi provochi i nostri schemi mentali e il nostro stile di vita. E’ una scelta profonda di apertura. Essere curiosi, aprirsi e lasciarsi mettere in crisi. Essere disposti a perdere il nostro equilibrio interiore, per renderlo dinamico e non statico.
La chiusura che possiamo percepire alle novità, al diverso o all’imprevisto, è una delle barriere create per difendere la nostra zona di comfort interiore.
La vita ci offre occasioni meravigliose per abbattere queste barriere, la gabbia che restringe la nostra vita alle minuscole zone del conosciuto. I bambini, ad esempio, sono insuperabili nel portarci fuori dalla zona di comfort. Così come gli accadimenti inaspettati. Grandi gioie e forti dolori. Le perdite. Le conquiste. Gli altri esseri umani in genere. Sono tutte occasioni per crescere, nel senso di svolgersi e compiersi verso l’ignoto umano che ciascuno ha dentro di sé -ignoto che è un peccato, un’offesa alla vita, lasciare intatto e vergine, non godibile, ignorato.
Possiamo scegliere di gestire ciò e chi viene verso di noi, oppure di viverlo completamente. E viverlo significa trasformarsi e crescere.
Le difese del nostro status quo sono le più svariate, e si esprimono con un fraseggio tipico nell’adulto medio odierno: non ho tempo, sono una persona seria, il lavoro prima di tutto, non mi lascerò ingannare, sono più furbo di lui, se non ci guadagno non ne vale la pena, sono stanco, ho bisogno di soldi, lasciatemi in pace...
Ma ci sono anche difese che abbiamo imparato durante il cammino dell’infanzia, nella relazione con i nostri adulti di riferimento: nessuno mi capisce, sono solo, non valgo, non sono all’altezza, non me ne va una dritta, non posso, non merito, non sono amato, non sono bravo, sbaglio sempre, nessuno mi vuole, sono buono, sono cattivo… Fino ad arrivare alle difese dettate dalla cultura: sono femmina, sono maschio, sono normale, sono anormale, sono piccolo, sono grande, sono ricco, sono povero, sono brutto, sono bello, è giusto, è sbagliato, è buono, è male.
Di fronte ad una bambina che insiste per giocare con noi, possiamo difenderci dicendo: non ho tempo e non lasciarci rapire dal gioco. Possiamo rifiutare un’occasione dicendo non sono all’altezza, e non permettermi di ballare in pubblico perché non sono capace.
Così, la nostra zona di comfort rimane inattaccabile, mentre perdiamo l’opportunità di dire vediamo cosa succede adesso, imparerò, mi metto alla prova, rischio… fraseggio vitale e mentalità effervescente di chi è in movimento, e dunque libero e vivo. Per uscire dalla propria zona di comfort, occorre disimparare le proprie difese.
Certo, ci sono persone che fanno dell’apertura il loro slogan, e pare siano sempre disposte ad esperienze nuove. Ma ciascuno ha un punto inattaccabile, attentamente, per non dire strenuamente, preservato, ed è quello la zona in cui il disapprendimento è reale crescita.
Quei punti sono i pilastri su cui abbiamo eretto noi stessi, che sono tuttavia al contempo delle gabbie in cui ci siamo rinchiusi.
Da disimparare è senz’altro il dettame accademico secondo cui il vero apprendimento sia intellettuale. Dettame incarnato pesantemente nel nostro sentire, pensare, agire.
Se l’apprendimento non è controllabile e quantificabile, non è vero apprendimento: a dimostrarlo semplici fatti, come la gita scolastica che pare sia stata inutile se non è seguita dalla stesura di un tema in cui dimostro a parole di aver capito qualcosa con la mente.
L’arte è quello spazio incredibile in cui è l’esperienza al centro di tutto, un’esperienza di rapimenti ed espressione. Ma a scuola in genere sono tacitamente e fortemente considerate di serie B le materie artistiche: se uno studente va bene in italiano e matematica ed è pessimo in educazione artistica, automaticamente è bravo a scuola, e se è un vero talento nel disegno e non capisce nulla in italiano e matematica, è ovviamente un somaro.
Imparare con l’azione, data e ricevuta, è un percorso a tutto tondo, che coinvolge tutti noi stessi: l’esperienza ci tocca in tutte le parti di noi, e la crescita è integrale. La conoscenza che ne deriva non è catalogata nella mente, ma incarnata in noi; si tratta di una sapienza del corpo, dei sentimenti, delle mani e dei piedi, di cui si usufruisce per via istintiva, cinetica ed emozionale, affettiva, non razionale.
E’ destabilizzante, ma fondamentale avvalersi di questo tipo di apprendimento e di sapienza. Ci completa. Ci valorizza come persone. Ci realizza umanamente.
Un discorso non ci trasforma. Delle nozioni teoriche possono farci capire intellettualmente, ma rimarrà una separazione dal nostro comportamento. L’esperienza ha un potere di disapprendimento e apprendimento formidabile. Che genera pensiero divergente.
Disimparare è insomma un percorso di crescita personale, intimo, che riguarda le nostre scelte più profonde, e la nostra vita in generale. Che ci consente di ampliare lo spettro del vivibile nella nostra vita, individuale e di gruppo.
Perché, se trovare 200 modi diversi di impiegare una graffetta può essere più o meno utile, trovare 200 modi diversi di esprimere e vivere se stessi, può essere grandioso.
Raffaella Cataldo